Il peso del consumo interno.

Quando si parla di Cina e di Foxconn, come si e’ fatto nel forum, si tende a dimenticare l’enorme peso che hanno, nelle contrattazioni industriali, i rapporti tra pesi specifici dei mercati interni. Questo avviene in Europa perche’ almeno nel mercato interno, e’ venuto a collassare l’equilibrio precedente. Cosi’ meglio fare due o tre spiegazioncine.


Un paio di assunti molto semplici.

Se la delocalizzazione serve a vendere su mercati stranieri, allora e’ una strategia vincente per aziende vincenti. Se la delocalizzazione viene fatta avendo in mente manodopera meno cara, allora si tratta di aziende che hanno ENORMI problemi di indici produttivita’.
Se il peso sul prezzo finale del prodotto,  tra dove il costo del lavoro locale e quello remoto e’ piccola, allora il problema e’ semplicemente un problema di organizzazione della produzione e della supply chain. Se la differenza tra il costo del lavoro incide enormemente sul costo del prodotto, la soluzione non e’ la delocalizzazione , ma l’automatizzazione del ciclo.

Se non capite questi due concetti, andate pure sui blog del signoraggio e non rompete le palle qui.
Torniamo al tema. Perche’ Apple ha delocalizzato in Cina, dal momento che ogni filmato mostra gli operai fare delle lavorazioni che tutto sommato sono industrialmente facili da fare a macchina. Se il problema e’ di fare montaggio meccanico di un oggetto, avvitando schede , incollando chassis e piazzando batterie e schermi, esistono macchine automatiche capaci di battere qualsiasi catena umana.
Allora perche’ Apple ha delocalizzato in Cina? Perche’ il mondo funziona, circa, come funzionava “prima” l’Unione Europea.
Prima dell’ Unione Europea, anche ai primi passi della CEE, diciamo sino agli anni ’80 (molti di voi erano piccoli e molti nemmeno nati) le aziende che esportavano avevano degli uffici dogana interni (dei gabbiotti con una pesa camion), gestiti dalla GdF (che aveva le chiavi del tutto) , la quale sigillava ogni camion in uscita verso l’estero, compilando una bolla di trasporto con allegata fattura e bolla di accompagnamento, e numero di colli -e descrizione del contenuto con classificazione fiscale- nel documento di dogana.
Le piccole per esportare (ma esportavano pochissimo) dovevano fare una trafila complicatissima presso gli uffici dogana generici, o usare le pese pubbliche con punzone (cioe’ quelle che potevano piombare il camion) , e tutta una trafila incredibile di doppie e triple fatturazioni.
Come era possibile il commercio cosi’? Era possibile perche’ gli accordi commerciali erano fatti nazione-a-nazione. Si incontravano il ministro degli esteri del paese A col ministero del paese B, ognuno seguito dalle imprese -o dai rappresentanti di settore- che volevano ottenere un accordo conveniente.
La discussione era piu’ o meno cosi’. Mettiamo che ci fosse un incontro Italia-Francia. Da un lato c’erano Mister Renault, Mister Peugeot, Mister Talbot, e dall’altro c’era Mister Fiat, Mister Alfa Romeo, Mister Lancia. Il tema era, ovviamente, esportare auto.
  • Italia: ciao Francia, voglio vendere auto da te. Ci sarebbe una noiosissima tassa alla frontiera del 45% che vorremmo tu togliessi.
  • Francia: magari si puo’ fare. Ma cosa mi dai in  cambio?
  • Italia: potrei abolire quella noiosissima tassa alla frontiera, diciamo del 45%, che abbiamo noi italiani sulle auto francesi.
  • Francia: il mio mercato interno e’ di circa 70 milioni di persone. E il tuo?
  • Italia: il mio mercato e’ di 60 milioni di persone, ma abbiamo meno treni, quindi e’ pari al tuo.
  • Francia: si puo’ fare.
  • Italia: si puo’ fare.
 Il problema veniva quando il confronto non era Italia-Francia, ma , che so io, Italia-Olanda. Allora i due paesi si incontravano. Da un lato c’erano, diciamo, Mr Philips, Mr JVC, Mr Unilever Dall’altro c’erano Mr Irradio, Mr Magneti Marelli, Mr Rex. Il dialogo procedeva in maniera diversa.
  • Olanda: ciao Italia. Avete un sacco di bella gente, li’. Che ne dite se vendiamo un poco di elettronica da voi? Ci sarebbe una fastidiosa tassettina del 45% alla frontiera…
  • Italia: uhm. Ma noi abbiamo gia’ le nostre aziende. Perche’ dovremmo darvi il mercato? Cosa ci date in cambio?
  • Olanda: beh, noi in cambio  apriremmo le frontiere ai vostri prodotti. Sapete, anche da noi c’e’ una fastidiosa tassettina del 45%….
  • Italia: ma noi siamo 60 milioni, voi solo 16 milioni. Non sembra una bella proposta.
  • Olanda: si, ma noi siamo mediamente piu’ ricchi e consumiamo di piu’.
  • Italia: si, ma siete sempre 16 milioni contro 60. E noi siamo negli anni ’80, l’ Italia sta avendo un boom economico. Non quaglia.
  • Mr Philips: ehm, se posso intervenire, nel caso si faccia un buon accordo, siamo disposti ad aprire un paio di fabbriche in Italia. Non saranno tanto produttive, ma… Parigi val bene una messa. E anche Mr JVC , Mr Unilever sono disposti a fare altrettanto.
  • Italia: uhm. Si da’ il caso che il nostro governo sia una governo DC e PSI e PCI , e avremmo giusto giusto una piccola lista di troie, cugini e ballerine ragazzi in gamba cui ci piacerebbe trovare un lavoro. Puo’ andare se assumete loro?
  • Olanda: va be’, se siamo tutti contenti, affare fatto.
Qual’era il KPI, il Key Process Indicator di un simile processo? Esso era il rapporto tra il mercato interno dei due paesi e l’effettivo equilibrio commerciale ottenuto.
Un trattato commerciale era buono quando il transito di merci alla frontiera rifletteva il rapporto tra il mercato interno dei due paesi.
Se vivessimo ancora in quel mondo, per fare un esempio, Nokia non potrebbe vendere un chiodo in Italia, a meno di non aprire fabbriche a iosa. La FInlandia non avrebbe avuto il peso necessario a trattare : la Olivetti (o chi per essa) avrebbe prodotto cellulari italiani, e per convincere il governo italiano a lasciar importare i Nokia senza porre svantaggi alla frontiera (tassazione e burocrazia) , avrebbe preteso che Nokia aprisse una o due fabbriche (preferibilmente nel meridione, in modo da non attaccare troppo il nordovest, ove c’era Olivetti -a Ivrea-).
In QUEL mondo, chi aveva il mercato interno piu’ grande (Italia, Germania, UK e Francia) aveva sempre delle condizioni di import/export piu’ vantaggiose rispetti ai paesi ove il mercato interno era piu’ piccolo. Per i paesi di dimensioni simili, era d’uso lo “scambio di favori”: durante gli anni ’80, quando c’era il boom economico in Italia, pur di entrare in Italia anche tedeschi , americani e francesi fecero carte false, ovvero aprirono inutili stabilimenti nel belpaese (accrescendo cosi’ il boom economico).
Questo vi spiega perche’ dopo Schengen le fabbriche straniere non abbiano piu’ voluto continuare gli investimenti in Italia: una volta impossibile la tassazione di frontiera, non era piu’ possibile usare il mercato interno come chiavistello, e il risultato e’ che PHILIPS ed altre aziende olandesi hanno dismesso i vecchi investimenti in Italia.(1)
Adesso c’e’ Schengen in Europa, ma non c’e’ , per dire, con la Cina. E’ vero che ci sono accordi come il WTO, ma specialmente dopo il fallimento del Doha Round, tutto e’ legato ad accordi bilaterali, o se preferite “preferenziali”. E questo significa che torna in auge la vecchia logica del rapporto tra mercati interni.
Credo che a questo punto avrete capito cosa sia successo. I cinesi avevano un mercato interno interessantissimo, e una volta superata la soglia di “desiderabilita’” del loro mercato, sono riusciti ad imporre che gli stranieri -per vendere in Cina- dovessero anche aprire le aziende li’.
Cosi’, non c’e’ alcuna ragione per Apple di produrre usando la Foxconn. Non c’e’ ragione perche’ se osservate su youtube qualsiasi filmato sulla Foxconn, siete in grado di pensare a centinaia di macchine automatiche capaci di produrre cosi’ ed oltre, a costi inferiori e a qualita’ piu’ costante.
Il problema e’ che il governo cinese non avrebbe MAI permesso ad Apple di vendere un chiodo in Cina, se non avesse assorbito a sua volta quella manodopera delle zone di campagna che il governo cinese teme si rivoltino per la fame.
Quando si parla di BRICs, in genere si parla di paesi che
  1. Hanno superato una soglia di consumi per la quale il loro mercato e’ appetibile.
  2. Hanno un livello di integrazione commerciale BASSO, tale per cui le frontiere sono ancora un ostacolo, a seconda di quanto il governo desidera lo siano.
  3. Hanno un disperato bisogno di investimenti e know-how in loco.
La vera trappola e’ scattata quando non si e’ detta la verita’ al pubblico, ovvero quando i governi non hanno avuto il coraggio di dire “le nostre aziende devono aprire la’, altrimenti non ci lasciano vendere”. La verita’ e’ che gli industriali locali avevavo voglia di prendere per il collo i sindacati. Quando hanno avuto la ragione economica per delocalizzare, hanno deciso di farlo in modo da indebolire i sindacati occidentali, dicendo “ehi, o cosi’ o vado via”.
Qual’e’ il problema di oggi? Il problema di oggi sta semplicemente nel fatto che la zona Euro comprende circa 450 milioni di persone, e se aggiungiamo inglesi ed americani siamo circa ad 800 milioni.
I cinesi hanno migliorato le condizioni di vita di circa 250 milioni di persone su 1.3 miliardi, in Russia sono migliorate le condizioni di vita di circa 80 milioni su 150, in Brasile di 40 milioni su 100, in INdia di 190 milioni su un miliardo.
Anche mettendo insieme tutto quanto, le somme non reggono. Questa operazione ha peggiorato le condizioni di reddito -se escludiamo il solito 1% di fortunati- a 800 milioni di persone. Ma se andiamo a vedere quanti nuovi consumatori sono nati, scopriamo che anche sommando tutti i “miracolati” , sommando il rispettivo PIL procapite, i vantaggi non hanno raggiunto gli svantaggi neanche coi salti mortali.
Questa e’ la ragione principale del collasso del mondo dell’automobile: sebbene si stia vendendo , si stiano costruendo fabbriche , ci siano molti piu’ clienti, succede che qualsiasi aumento avvenga nei BRICs non compensa il disastro che ha causato lo smantellamento dell’industria pesante nei paesi occidentali. Cosi’, nonostante ci sia quasi mezzo miliardo di potenziali clienti IN PIU’, l’industria dell’ auto arranca perche’ ha affamato il proprio principale mercato.
Questo vale in generale per ogni equilibrio inport/export  tra nazioni , se l’equilibrio nasce da un equilibrio tra mercati interni e governi protezionisti: qualsiasi accordo non fa altro che beneficiare il piu’ grosso a sfavore del piu’ piccolo, sino a quando non si nota che la somma e’ una coperta troppo piccola e conviene dirsi addio.
Il commercio gestito sul rapporto tra mercati interni e’ un commercio “a fisarmonica” per definizione.
Fino a quando esiste uno sbilanciamento, il mercato viene barattato con la produzione. Quando gli investimenti crescono sino a produrre un indotto e l’indotto si proietta all’estero (tipicamente verso le sedi centrali dei clienti) allora il fenomeno si inverte.
Quando il fenomeno si inverte, i rapporti di forza si invertono, ed e’ il nuovo fornitore a spostarsi vicino alla sede centrale dell’azienda delocalizzata. Per esempio: BASF viene in Italia. Nascono attorno a BASF una serie di aziende italiane fornitrici. Poi, queste si spostano verso la sede centrale di BASF, aprendo sempre di piu’ in Germania. Ad un certo punto, il bilancio e’ tale che a BASF non conviene piu’ tenere la fabbrica in Italia perche’ cio’ che vende in Italia lo ha comprato dall’ Italia, e ormai si trova in Germania. A quel punto il flusso si inverte, e la sede italiana chiede sussidi al governo per non chiudere. Fatto questo, il governo deve vendere il mercato locale a qualcun altro, in cambio di investimenti. Ma e’ un mercato in crisi, da cui ottiene meno.
Il processo si ferma quando alla fine i settori esportano ed importano piu’ o meno le stesse quantita’. L’ Italia, per dire, ha un bilancio inport/export molto vicino al pareggio, il che significa che ormai si trova in una zona “di quiete”.
I cinesi (ed i BRICs in particolare) hanno passato la fase della prima onda, ma le loro aziende NON si stanno proiettando verso il centro delle aziende occidentali che hanno delocalizzato da loro. In questo modo, la prima fase della sinusoide non trova seguito nell’inversione di parti.
E questo e’ l’oggetto della crisi che sta per falciare le economie orientali: in questa fase, dovrebbero essere le loro aziende ad investire ed aprire in occidente, vicino ai produttori che hanno servito dalla Cina. Ma il governo cinese non puo’ ordinare la delocalizzazione, perche’ culturalmente incapace di capire una simile espansione.
Di conseguenza… lo vedremo nei prossimi mesi, e specialmente col nuovo governo cinese.
Uriel
(1) E’ brutto sentirsi dire che non hanno mai investito qui per quanto bene lavoravano gli operai o per quanto producessero le fabbriche. Eh, gia’.

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