Lo smart working e il south working.

Lo smart working e il south working.

Una classe di giornalisti che vive con la mente nell’ 800 non puo’ fare altro che interpretare le cose secondo i paradigmi dell’800, e quando queste fesserie si spargono dai giornali alla mente dei lettori, il disastro sociale e’ quasi assicurato.

Mi riferisco ad una cosa che ho letto su un giornale, riguardante il “south working

Di per se’ e’ una boiata innominabile che sembra scritta da un tenutario di schiavi dell’ alabama.

E mostra chiaramente come non si sia capito cosa sia lo smart working, che viene confuso col telelavoro. Ma sono due cose diverse, sebbene si basino entrambe sulla premessa che il lavoratore non sia in sede.

Vediamo di capire di cosa stiamo parlando. Outsourcing e offshoring del lavoro esistono (e sono tendenze pesanti del mercato) ormai da 25 anni. Se l’azienda X milanese in questione voleva spostare la produzione in Puglia, o a Prato, non aveva che da fare una ricerca su google. Stessa cosa vale per outsourcing e offshoring verso nazioni straniere a basso costo della vita.

chi teme che lo smart working sia un inizio di outsourcing o di offshoring, puo’ stare tranquillo. Entrambe le cose esistono ormai da 25 anni, e non avevano bisogno dello smart working per poter esternalizzare il lavoro.

Questo outsourcing ha spostato valore, ricchezza o sviluppo verso i paesi emergenti? Si, ma solo in quelli ove il governo ha saputo fare leva su questo fattore. Perche’? Perche’ ovviamente non si tratta di un rapporto tra datore di lavoro a dipendente, ma di un rapporto di lavoro tra cliente e fornitore. Azienda A che compra beni o servizi da azienda B. E siccome le aziende sono il piu’ grande contributore del PIL, questo ha creato sviluppo. Quindi i governi che hanno saputo usare l’aumento del PIL nel proprio paese per costruire infrastrutture, combattere la corruzione e attirare cosi’ altri investimenti ci hanno guadagnato. Altre nazioni, che non avevano questa cultura, non ci hanno guadagnato e non sono cresciute particolarmente bene per questo.

Bene. Ma lo smart working e’ una cosa diversa.

Innanzitutto, il rapporto e’ quello che passa tra datore di lavoro e lavoratore. Cioe’ un rapporto esclusivo. Lo spauracchio di tutti, cioe’ il vietnamita che lavorando dalla spiaggia in Vietnam diventa un lavoratore “remote” a Milano non e’ piu’ un dipendente, e’ un fornitore. E lo e’ perche’ ha il potere contrattuale di un contratto NON esclusivo. Tralasciamo pure la fatica di andare per vie legali contro qualcuno da Milano al Vietnam. Ma se anche fosse possibile, questo signore lavora in un ufficio convidiso con altri come lui, e ha di fronte tutti i sistemi di crowdsourcing del mondo. Cosa significa? Che la volta in cui ti incazzi e fai il caporale, dopo due giorni hai una lettera di dissoluzione del contratto, magari non ti consegna neppure tutto il lavoro fatto, e ciao ciao. E tu rimani nella merda proprio a 75% del progetto.

Esistevano gia’ i sistemi di crowdsourcing, e le aziende non ne sono state molto entusiaste. Il lavoratore che vive in un paese a bassissimo reddito puo’ permettersi tranquillamente di stare 15 giorni senza lavoro per cercarne un altro.

Il problema dello smart working di singoli individui in paesi stranieri e’:

  • liability zero. Non rispondono dei danni che fanno e una causa e’ impossibile.
  • availability zero. Ti si licenziano da un momento all’altro e ciao ciao. Spariscono.
  • quality zero. Devi assumere esperti in qualita’ per seguirli uno ad uno.

il requisito dello smart working e’ che invece il rapporto di lavoro rimanga subordinato , ovvero che il ragazzo di Palermo che adesso lavora per l’azienda di Milano non possa mandare a quel paese il datore di lavoro, tanto vive gia’ coi genitori e ha un cuscinetto. Prima, se mandava a quel paese il datore di lavoro doveva cercare un’altra casa o traslocare di nuovo a Palermo. Adesso vive gia’ a Palermo, ha un tetto sulla testa e genitori che lo aiutano.

Quindi non funziona: se vuole fare dumping all’azienda di Milano conviene un outsourcing in-shore, che almeno gli garantisce delle condizioni contrattuali certe, tempi di consegna e una liability che puo’ essere riscossa in un tribunale italiano.

Ma andiamo al trasferimento di risorse. Qui i conti non tornano. Il ragazzo che prima andava a spendere , ogni pranzo, il suo buono pasto da 5 euro in un buco di Milano adesso mangia a casa. Ma a casa lo stesso pasto gli costa 2 euro se mangia con la famiglia.

Che cosa e’ mancato? E’ mancato quel “valore aggiunto”, gli ulteriori tre euro che spendeva perche’ si trovava a Milano. Voi direte che adesso il ragazzo quei soldi li ha in tasca, ed e’ vero, ma alla fine cosa puo’ farci?

Perche’ se escludiamo la verdura che magari compri dall’ortolano sotto casa, il resto e’ un prodotto industriale. Non cambia nulla se lo comprate in un supermercato a Milano o a Palermo, un pacco di biscotti della Pavesi viene sempre dallo stesso posto.

La storia che si sposta automaticamente la ricchezza presuppone che si sposti l’intero strato di servizi. Quindi se vi aspettate che tutto il catering relativo ad Happy Hour e “Ape” si sposti da Milano a Palermo, dovete prima inseguire TUTTA la catena del valore, e capire se a Palermo esista o meno la societa’ che ha creato l’ “Ape”. E se anche esistesse, occorrerebbe investigare sullo strato di investimenti che sta sotto: le banche finanziano questo tipo di attivita’? Quanto a Milano? Esiste tutta la supply chain del cibo lombarda, a Palermo? E ancora: in quanto tempo puo’ spostarsi?

Personalmente, ma questo richiederebbe uno studio piu’ approfondito, l’unico tipo di catering the puo’ seguire una trasformazione simile e’ la grande distribuzione. Catene molto organizzate come Mc Donald’s, o altre, hanno il potere di seguire trasformazioni del genere in poche settimane, o pochi mesi. Ma se mi dite che a Palermo stanno per partire migliaia di attivita’ commerciali e un paio di catene di distribuzione , nello stesso tempo, secondo me sognate. Occorrono tempi molto piu’ lunghi.

In tutto questo, pero’, stiamo dimenticando che lo smart working non e’ telelavoro. Il telelavoro e’ uno strumento tecnologico che ha come obiettivo lo smantellamento dell’infrastruttura centralizzata , con il relativo risparmio dei costi.

lo smart working e’ uno strumento di produttivita’.

Si tratta di tutta una serie di framework (agile/scrum, nexus, lean, digitalizzazione completa ed altri) che si propongono di aumentare la produttivita’. Significa che dopo la trasformazione le aziende sono piu’ produttive di prima, con lo stesso personale.

Ma, attenzione: le aziende non si sono mosse. E siccome sono le aziende, e non i singoli che spendono, a generare la gran parte del PIL, la maggior parte del PIL rimane li’ dove si trova. E se aumenta la produttivita’, ancora piu’ PIL rimane dove si trova.

La differenza semmai e’ il livello di soddisfazione: rimanere nel paese natio anziche’ emigrare forzatamente e’ una condizione piu’ felice. Evitare 3 ore al giorno di commuting e’ chiaramente meglio. Mangiare con la dieta che ti serve e non con quella che trovi nei buchi ove si mangia in pausa pranzo e’ sicuramente piu’ salutare. Mantenere i rapporti sociali , avere piu’ tempo per se’ stessi, per lo sport, gli hobby, la famiglia, e’ sicuramente un valore. Personalmente lo apprezzo moltissimo.

Ma se mi dite che nel telelavoro si sia trasferita ricchezza tra Dusseldorf e Neandertal, sbagliate di grosso. La digitalizzazione di OGNI azienda , che e’ venuta con lo smartworking, mi permette di ordinare la spesa online da una nuova spinoff di METRO, per dire. La mia spesa la faccio sempre nello stesso posto, di fatto. La catena del valore termina sempre nello stesso posto. Magari quando esco la sera vado in un locale anziche’ un altro? Puo’ darsi, ma si tratta di frazioni MINIME del PIL.

Bisogna mettersi in testa una volta per tutte che il PIL non lo fanno i consumi dei singoli, ma l’indotto delle aziende.

Si tratta di un rapporto 80/20. Il fatto che si sia spostato a Palermo il “20” ma l’ 80 sia rimasto a Milano, non ha cambiato di molto il bilancio, perche’ a Palermo non si consuma a chilometro zero. L’ ADSL la si paga ad un’azienda di Roma o di Milano, l’automobile la si compra da un’azienda straniera, le merendine vengono sempre da Mulino Bianco, la pasta viene sempre da Barilla, eccetera eccetera eccetera. O a palermo ci sono supermarket di cose fatte sempre e solo a Palermo, oppure di quel 20% di valore che si e’ spostato, a Milano ritorna il 15%.

Ma la citta’ adesso ha alcuni problemi. Il primo e’ che adesso , a fonte di uno spostamento di PIL abbastanza contenuto, si trova a dover garantire scuole, ambulatori, servizi, servizio di scarico rifiuti, e tutto quanto garantisce al cittadino, con un modesto aumento di PIL.

Milano poteva garantire un servizio ai lavoratori delle aziende sia per le tasse pagate dagli stessi lavoratori, SIA per le tasse pagate dalle aziende. Ma se le aziende restano a Milano e i lavoratori vanno a Palermo, Palermo deve far fronte a tutta questa massa di cittadini che vivono li’, senza avere anche il reddito delle aziende per cui lavorano.

Qualcuno mi ha risposto che adesso questi ragazzi si sposano&fanno figli, cosa che non avrebbero fatto a Milano. Bene. Per il comune di Palermo questa e’ una bruttissima notizia. Significa che deve garantire asili nido, scuole elementari e medie, pediatri, medici di famiglia &co, a tutto uno strato di persone che pagano le tasse, ma senza le tasse delle aziende per cui lavorano.

Normalmente quasi tutti i comuni hanno SIA il reddito dei lavoratori che quello dei datori di lavoro. Per questo possono sopperire servizi COSTOSISSIMI alla famiglia e alla persona, e servizi di costo quasi piccolissimo alle aziende. Ma se arrivano le persone SENZA le aziende, per il comune il problema si fa drammatico: il bilancio del pendolarismo e’ SEMPRE stato terribile per i comuni proprio per questo. L’azienda , quella che paga la ciccia, non era in loco.

Del resto basterebbe osservare la distribuzione del reddito per capire: con il livello di disuguaglianza attuale, o si sposta il ceto medio/alto di Milano , oppure di PIL se ne muove pochissimo. Ma il ceto medio/alto di Milano per vivere ha bisogno di vivere a milano per via della necessita’ di rapporti sociali. Non puo’ muoversi da li’. Se torna a palermo la working class, di PIL se ne muove pochissimo, almeno con la distribuzione attuale di ricchezza: se ci sono 400.000 milionari in Italia, sono quelli che fanno la partita.
Se non si muovono quelli, e si muove solo la working class, le tasse rimangono in gran parte a Milano, mentre i bisogni di servizi (asili nido, rifiuti, etc) si spostano a Palermo. Non e’ una bella notizia per Palermo.

Per questa ragione NON concordo con l’idea che lo smart working sia AUTOMATICAMENTE un vantaggio per il sud. E’ un vantaggio per i lavoratori del sud, certo, ma non per il sud nel complesso, che si trovera’ gravato di servizi da dare ad una popolazione giovane, avendo solo le briciole della fiscalita’ (dato che le aziende sono rimaste a Milano insieme all’indotto).

Sarebbe un vantaggio se adesso Palermo si dotasse di un incubatore di aziende ben finanziato, e tentasse di epprofittare delle nuove risorse umane in loco, spingendoli ad aprire aziende in loco. E qui torniamo sempre al discorso dell’outsourcing: ha arricchito solo QUEI GOVERNI che lo hanno saputo usare.

Se la vediamo sul piano dei bilanci comunali, nel south working Milano ha scaricato su Palermo la parte fiscalmente in passivo della catena produttiva (i lavoratori) , tenendosi quella fiscalmente in attivo (le aziende). Palermo ha ricevuto la parte minoritaria del gettito fiscale , ma deve fornire la parte maggioritaria dei servizi. Non e’ un affare per Palermo.

Lo spettacolo triste delle strade di Milano vuote cosa vuol dire?

Niente. Lo smart working era una tendenza in corso, quindi ci saremmo arrivati comunque in 5-10 anni. La prima ondata di Covid ha accentuato la cosa velocizzandola di dieci anni, quindi i settori meno elastici (catering e immobiliare) si sono spezzati. Corretto. La seconda ondata, se arriva come si pensa, (qui in Germania fa freddo prima che da voi, e si stanno vedendo i prodromi prima) fara’ ancora di piu’ e tutte le telco si stanno attrezzando per dei forecast paurosi. Se la seconda ondata sara’ molto grave e si prolunghera’ nel tempo, si dovranno digitalizzare anche gli ortolani sotto casa, se vogliono sopravvivere.

Ma sono cose che sarebbero successe comunque da qui a 5-10 anni. Il fatto che siano arrivate in un colpo solo ha sfrondato il mercato a partire dalle attivita’ meno elastiche, niente di piu’. Ma sono morte delle attivita’ sulle quali giravano gia’ gli avvoltoi.

Aspettate che la seconda ondata falci via assicurazioni e banche, e allora si ballera’ davvero. Che la sede della banca e’ la cosa piu’ inutile dell’universo nel 2020, e anche le assicurazioni non sono messe meglio (ma per altri motivi).

Il catering e l’immobiliare in Europa (eta’ media: 44 anni) erano gia’ morti.

Con questo, chiudo.

Commenti

  1. mandraghe

    Guarda che a Palermo la gente fa la spesa ai mercati di ballarò, il capo e la vucciria. Hai presente il centro di Palermo? Ovviamente no, comunque è il più grande (oppure uno dei) d’Europa ed anche quello con meno supermercati a disposizione.

  2. Firmato Winston Diaz

    “servizi COSTOSISSIMI alla famiglia e alla persona, e servizi di costo quasi piccolissimo alle aziende”

    In italia, la tassazione e’ altissima sulle aziende in cambio di servizi che arrivano alle persone, perche’ le aziende non votano e non fanno vincere le elezioni (perlomeno quelle non abbastanza “too big”, che usano altri mezzi di pressione su chiunque le vinca): a parte il sostituto d’imposta irpef e previdenziale, che lo pagano le aziende per conto dei dipendenti direttamente allo Stato, c’e’ l’IMU, la cosiddetta “imposta municipale unica” (magari fosse l’unica!) che si paga ed e’ salatissima su tutti salvo che su chi usa di piu’ i servizi dei comuni e vota per essi, cioe’ le “prime case”. O la “tariffa” sulle immondizie (che in realta’ e’ una tassa dai cui profitti aziendali i comuni finanziano anche altre spese): il trucchetto tipico dei comuni e’ far pagare gli immobili commerciali e produttivi, anche i buchi negozietti/artigianali, 10 o 100 volte di piu’ delle abitazioni, cifre invereconde e spopositate, nel mio comune del nord anche oltre 500 euro al MESE! Indipendentemente dal reddito! Il vecchio milione al mese, per le sole immondizie! E anche sugli immobili sfitti, con un piccolo sconto!

    Questo gioco perverso in cui a pagare e’ sempre qualcun altro rispetto a chi gode e decide col voto come e quanto spendere, ha fatto lievitare alle stelle sia la tassazione che la spesa e la complicazione fiscale, senza paraltro risolvere nulla dato che ciascuno, alla fine, per quanto cerchi di fare il furbetto, nel pubblico o nel privato, e’ il qualcun altro di qualche altro.

    Il problema e’ che in questo casino contabile e burocratico ricorsivo, iperconnesso e ipercomplesso di cui nessuno capisce piu’ nulla (specie la casta ieratica degli economisti/fiscalisti azzeccagarbugli, il flagello della nostra epoca), e’ stato tirato al limite tutto, non c’e’ piu’ spazio di flessibilita’, il gioco e’ diventato a somma non solo zero, ma negativa, e con tutti che pur nella bulimia materiale, pubblica e privata, ch’e’ finanziata sempre da “qualcun altro”, stanno esistenzialmente di merda: persino i ricchi, e i privilegiati dipendenti pubblici (privilegiati non solo per il denaro sicuro, anche per il potere).

    Uno dei sintomi terminali dell’applicazione estrema del principio del “sostituto d’imposta”, e’ il dilagare dell’economia dei bonus e degli incentivi/disincentivi. Per qualche motivo psicologico recondito, nella mente delle persone gia’ aduse al principio magico della lotteria come fonte di ricchezza, incentivo=gratis.

    Il problema, comunque, non e’ tanto la collettivizzazione del prelievo fiscale, e’ la collettivizzazione delle decisioni di spesa coi soldi degli altri, che toglie ogni freno al loro aumento in mille rivoli spesso privi di ogni utilita’ reale quando non addirittura disfunzionali, se non in quanto fungono da pretesto per l’incasso di una quota parte dei proventi della tassazione. E vale anche per gli “investimenti” in strutture inutili, di cui fra l’altro si tiene sempre ben nascosto che i posteri, sperabilmente per loro meno numerosi, dovranno pagare per legge gli oneri di manutenzione della ybris scervellata di chi li ha preceduti, in un crescendo rossiniano.

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