Sul customer-shaming.

Sul customer-shaming.

Sul customer-shaming.

Osservando la dialettica del “green” , e chiedendomi quanto sia inquinata dalle stesse corporations che non vogliono cambiare (o vogliono solo fare green-washing), una delle tendenze piu’ pericolose e’ il customer-shaming. La tendenza, cioe’, ad incolpare il consumatore per cio’ che fa (e fa guadagnare) la corporation.

Faccio un esempio: le bottiglie di plastica in mare. Se osservate la dialettica in corso, scoprite pochissimi che danno la colpa a Evian (un esempio di azienda che commercializza miliardi e miliardi di bottigliette di plastica) , mentre tutti puntano sull’incivilta’ dell’utilizzatore, o sull’inefficienza dello smaltimento.

La cosa e’ apparentemente sensata (e lo e’ nella misura in cui il maiale della situazione getta bottiglie in mare, o abbandona l’immondizia sulla spiaggia), ma c’e’ un problema. Un piccolissimo problema che nessuno prende in considerazione: se non ci fosse la bottiglietta di plastica, il problema non si porrebbe.

Per capire meglio questo concetto , vediamo come sarebbe il mondo ideale in questa visione:

  • La Evian della situazione produce e commercializza miliardi di bottigliette di plastica, la piu’ economica, e ci fa profitto.
  • Il consumatore si danna a smaltire la bottiglietta A SPESE PROPRIE e/o del proprio tempo e impegno personale, SENZA che ad Evian questo smaltimento costi qualcosa.
  • Quando le bottiglie si accumulano, lo Stato costruisce e mantiene un sistema di gestione dei rifiuti, senza che ad Evian questo smaltimento costi qualcosa.

Non so se avete notato, ma in questa visione Evian si tiene tutto il guadagno, lo stato ed il consumatore si prendono tutta la fatica e i costi. Non lo trovate sospetto?

Posso farlo anche piu’ evidente: invece di Evian , prendiamo come vittima Coca Cola. Coca Cola produce miliardi e miliardi di bottiglie di liquidi bevibili di vario gusto, che poi stocca, vende, e che producono rifiuti. Alcune bottiglie sono di vetro, altre di plastica. E poi, come al solito , vergogna del consumatore se le bottigliette di plastica finiscono in mare, o se quelle di vetro non vengono smaltite bene (ovviamente, NON a spese di Coca Cola).

Se pero’ pensiamo a cosa ci sia dentro una bottiglia, otteniamo due cose:

  • acqua
  • sapore.

E se osserviamo che l’acqua esce dal rubinetto, scopriamo che tutto quel che mi serve e’ il “sapore”. Bene.

Sul customer-shaming.
Sapori. Versate la polverina dentro l’acqua e ottenete la bevanda. 

Posso comprare su amazon il “sapore”. Si tratta di confezioni da 48 dosi, ognuna da due litri. Significa 96 Kg di Coca Cola in una scatolina che pesa 300 grammi. Se dovessi stoccare 96 bottigliette da un litro , per ognuno dei tre gusti, avrei una catasta di casse in giardino.

Questo e’ il punto. Esiste l’alternativa.

Sapendo che esiste l’alternativa alla bottiglia/lattina di Coca Cola, potete DAVVERO dire che e’ colpa del consumatore se le bottiglie finiscono in mare, se si muovono camion e treni per mandarle ai supermarket, se si impiegano (e si refrigerano in alcuni paesi caldi) magazzini e tutto quanto?

Sarebbe colpa del consumatore se esistesse l’alternativa e Coca Cola vendesse anche la bustina. Ma non esiste, ed ovviamente “Frutti Cola” non usera’ la stessa brevettatissima ricetta di Coca Cola. Siccome Coca Cola vende la sua bustina (non ci sono gli oompa-loompa a fare la coca cola a mano) solo diluita con la stessa acqua che esce dal rubinetto, la tesi e’ insostenibile: esiste una colpa di Coca Cola.

Ovviamente, pero’, questa cosa salta agli occhi solo quando si propone l’alternativa. E quando salta fuori il fatto che IL PRODOTTO potrebbe essere diverso, ALLORA si vede chiaramente che si’, lasciare in strada la lattina e’ sbagliato, MA qualcuno dovrebbe prendere Coca Cola per il colletto e chiedere come mai fa ancora la lattina.

Insomma, l’inquinamento da bottigliete dei mari e’ un problema SIA per l’utente che sbatte via la bottiglia, o per chi doveva smaltirla e lo fa buttandola in mare, CHE PER CHI LA PRODUCE. Ma di questi si parla poco.

E la cosa salta agli occhi quando si parla di “personal carbon footprint”. Cioe’, io per scaldare la casa utilizzo il gas, MA NON E’ CHE IO ABBIA MOLTE ALTERNATIVE. Chi ha deciso di creare immense infrastrutture per portarmi in casa il gas? E perche’ se non vivete in posti particolarissimi trovare , che so, stufe a pellet e il pellet stesso e’ cosi’ difficile?

Questo e’ il punto: si dice che io abbia un “PERSONAL carbon footprint”, ma quando vado a vedere, bisognerebbe chiamatlo “BUSINESS carbon footprint”. Non ho scelto io il gas: per me qualsiasi altra fonte andrebbe bene: ho scaldato casa mia, per ANNI, usando pompe di calore con un Ω di 3.5. Ma sono difficilissime da trovare e in Italia c’e’ un limite di 3KW, quindi ho dovuto implorare di avere 6KW, da pagare moltissimo. Qui in Germania ho 16KW, ma trovare pompe di calore e’ difficilissimo.

Allora, la carbon footprint di casa mia e’ una “personal” carbon footprint, oppure una “business” footprint? Alcuni esempi:

  • molte delle cose che conserviamo in frigorifero si conserverebbero meglio e piu’ a lungo se essiccate.  Senza consumare energia.
  • i vestiti che usiamo non sarebbero da smaltire se il Fashion Business non avesse introdotto un’obsolescenza pianificata, detta “moda di quest’anno”.
  • saponi, shampoo e bagnischiuma vari non finirebbero cosi’ tanto nelle fogne, se fossero diluiti in acqua del 50% rispetto alle dosi di oggi, dosi che sono inutilmente concentrate.

e potrei continuare, ma il concetto e’ semplice:

Le aziende producono il prodotto che conviene loro, senza curarsi degli impatti. Poi, usando i loro dipartimenti di marketing & advertisement, convincono le masse che le conseguenze del loro operato siano a carico del consumatore o del governo, COLPEVOLIZZANDOLO con dei termini come “personal carbon footprint”, “personal environment impact” e altri.

E la cosa e’ evidente quando osserviamo il mondo del Fashion. Se QUALSIASI altra azienda vi facesse un prodotto che e’ obsoleto l’anno prossimo SOLO PERCHE’ E’ UN ANNO DIVERSO, come fanno loro con “Collezione autunno/inverno 2021”, sicuramente il regolatore li accuserebbe di fare obsolescenza pianificata. Ma in qualche modo l’industria della moda e’ riuscita a convincervi che se Samsung fa un prodotto che dura due anni e’ un mostro, se Armani fa un prodotto che dura sei mesi allora e’ fico.

E se il vostro guardaroba finisce nel bidone ogni anno, ALLORA e’ il VOSTRO “planet footprint”, e non il LORO planet footprint.

E no, non mi riferisco al “consumismo”. Io posso anche cambiare qualcosa ogni anno, PURCHE’ SIA CHIARO CHE LO SMALTIMENTO SPETTA AL PRODUTTORE.

Non avrei problemi se l’industria della moda si riprendesse i vestiti dopo un anno per riciclare i tessuti. Cosi’ come non avrei problema se Samsung si riprendesse il cellulare dopo due anni, ridandomi una cauzione per i materiali.

Invece Samsung e Gucci mi dicono che e’ COLPA MIA se questi prodotti (che loro hanno reso caduci e NON riprendono alla fine del ciclo) , e se questa roba finisce in discarica il bastardo sono io.


Facciamo un esercizio linguistico. Sinora tutti avrete sentito parlare di “consumismo”, e lo avete associato ad un comportamento del consumatore, associando anche tutti gli effetti nefasti con il consumatore stesso.

Stranamente, nessuno ha fatto notare come il consumatore nel comprare ci rimetta, visto che spende soldi. Al contrario, il produttore ci guadagna. Il consumatore vivrebbe benissimo se la sua auto durasse due milioni di chilometri, mentre vivrebbe malissimo il produttore. A quanto pare, quindi,

quello che chiamiamo “consumismo” andrebbe chiamato “producismo”. Non e’ l’idea di consumare piu’ possibile , ma l’idea di PRODURRE piu’ possibile a dominare il concetto.

E questo perche’ consumare per il consumatore e’ un COSTO, mentre per il produttore e’ un RICAVO. Per quale ragione attribuire il fenomeno a chi ci rimette, anziche’ a chi ci guadagna?

Il guaio e’ che se diciamo che le bottiglie nell’oceano sono un prodotto del consumismo, stiamo dando la colpa al comportamento del consumatore. E quindi e’ il consumatore che deve stare attento al destino delle sue bottiglie di plastica dopo averle svuotate.

Se invece diciamo che le bottiglie nell’oceano sono un prodotto del “producismo”, stiamo implicitamente spostando la colpa al comportamento del produttore di bottiglie. E qui spostiamo la responsabilita’ verso il PRODUTTORE; che dovrebbe stare attento al destino delle bottiglie di plastica che produce.

Questo semplice esercizio mostra chiaramente quanto sia capillare la narrativa del “personal footprint”: esso e’ in realta’ un “company footprint”, se non un “business footprint”, e nessun consumatore dovrebbe sentirsi in colpa.

Sul customer-shaming.
Davvero producete voi le bottiglie di plastica? E dove le fate, in Garage?
Sul customer-shaming.
OGNI CITTADINO del pianeta ha un garage ove PRODUCE bottiglie di plastica, o a produrle sono poche aziende?

Ma nessuno di noi, o quasi, PRODUCE i rifiuti.


Facciamo un altro esempio per chiarire anche la questione “le famiglie producono tot chili di rifiuti”. Prendiamo questo:

Sul customer-shaming.

Il blister che sta attorno alla bistecca voi lo getterete via, e diranno che la vostra famiglia PRODUCE quel rifiuto. Ma voi avete desiderato la bistecca o il blister? Uhm.

Immaginate che nei supermercati voi possiate tirar fuori la carne, metterla nel vostro tupperware, tenervi l’etichetta e lasciare il blister al supermercato. A quel punto la vostra famiglia non “PRODUCE” piu’ quel rifiuto. E sara’ inutile parlare di “rifiuti PRODOTTI per famiglia”.

Ma a quel punto, apparentemente, il rifiuto lo “PRODUCE” il supermarket.

Allora diciamo che anche il supermarket si rompe le palle di sentirsi in colpa di “PRODURRE” rifiuti, e faccia la stessa cosa: tiri fuori la carne dai blister e la venda sfusa , con una bilancia tarata. (e’ un esempio, ok?). E poi rimandi tutti i blister al distributore.

A quel punto il supermarket non “PRODURRA” piu’ rifiuti, e le statistiche “rifiuti per supermarket” non avranno piu’ senso.

Apparentemente ora il rifiuto lo “PRODUCE” il distributore. E quindi parleremo di rifiuti per distributore.

Ma adesso anche il distributore si rompe le palle, e toglie le bistecche dal blister. E rimanda il blister al produttore.

Ecco che improvvisamente TUTTA LA CATENA e’ libera dall’accusa di “PRODURRE” i rifiuti. E a volerla dire tutta, se anche il produttore della carne spedisse in giro la carne sfusa SENZA alcun blister, nemmeno l’azienda di carni sarebbe accusabile di “PRODURRE” dei rifiuti (se escludiamo l’osso).

E allora? E allora a produrre il rifiuto, cioe’ il blister di plastica, e’ LA FABBRICA CHE PRODUCE BLISTER DI PLASTICA.

E se finiscono nell’oceano, e’ da LORO che dovete andare.

Producismo, anziche’ consumismo.


Detto questo, allora siamo liberi da responsabilita’? Di per se’ no: e’ chiaro che se ho una bottiglia di plastica la devo smaltire bene.

Ma anziche’ perdere tempo ad incazzarmi col mio vicino se non fa la stessa cosa, DOVREI perdere tempo ad incazzarmi perche’ qualcuno ha PRODOTTO la bottiglia di plastica.

Ma non lo facciamo, perche’ ci hanno convinti che se la bottiglia finisce nell’oceano e’ perche’ NOI non ci siamo preoccupati del suo destino, anziche’ chiarire che se finisce nell’oceano , PRIMA DI TUTTO, e’ perche’ IL PRODUTTORE DELLA BOTTIGLIA non si e’ preoccupato del suo destino.

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