Storie di vita italiana nell ‘Unione delle Repubbliche Socialiste di Emilia e di Romagna

Dunque, come ho detto spesso vengo da una famiglia operai, e mia madre e’ una che oggi verrebbe chiamata “migrante” dai radicalchic.

Il luogo ove si forma la mia opinione sui sindacati e’ la bassa ferrarese, quell’insieme di paesini vicini alle aree paludose, che fino agli anni 70 hanno vissuto di zuccherifici e barbabietole.

Per capire l’atmosfera del posto bisogna immaginare un posto dove la favola di Peppone e Don Camillo non si puo’ scrivere perche’ Don Camillo e’ stato ammazzato una notte del 46.

E se si e’ salvato, allora e’ stato trasferito su richiesta del PCI. E se la curia non ha accettato di trasferirlo, allora e’ avvenuta una tale piccola persecuzione locale (dagli oratori chiusi per questioni di igiene , alle ispezioni dell’ufficio del lavoro su chi puliva il pavimento della chiesa, fino all’arrivo dei pompieri che fanno notare mancano estintori e requisiti per avere tanta gente.) che se ne sono andati.

Parliamo di un posto dove a scuola , una volta a trimestre, alle elementari, arriva il vecchio partigiano o il vecchio soldato della campagna di Russia che ti raccontano di che merda e’ stato il fascismo. Su richiesta del partito.

Se pensate di aver avuto dei libri pesanti alle medie, il mio “libro di lettura” in prima media era “La fattoria degli animali”, in seconda media “Se questo e’ un Uomo”, in terza media “Arcipelago Gulag”. 11, 12 13 anni. Era tale lo strapotere politico del PCI che nessuna scuola poteva proporre un qualsiasi libro di lettura che non piacesse al partito.

Il luogo di ritrovo del posto era detto “il sindacato”. Paesino di 200 anime, era il circolo Arci che faceva anche da sede locale del PCI , da localita’ per la Festa dell’ Unita’ e da sala riunioni per le assemblee sindacali e politiche. Nonche’ da bar , tabaccaio, giornalaio e bocciofila.

Tutto inizia attorno al 1977. Perche’ fino al 1976 la mia vita di bambino era abbastanza tranquilla. Si viveva nelle case che “la fabbrica” dava ai “Maestri d’Opera”, quegli operai che erano capaci di misurare i centesimi senza calibro, di verificare il piano ad occhio, di trovare le miro-crepe nei tubi battendoli con una chiave e ascoltando il rumore.

Insomma, quella gente li’, aveva due file di casette a disposizione: in fondo c’era “la villa”. Non ci stava il padrone, ma “l’ Ingegnere”. Era uno di quegli ingegneri di una volta, che col regolo calcolatore e un tavolo da disegno metteva in piedi tutta la fabbrica, dal capannone alla torre di distillazione per l’alcool.

Aveva , come benefit, una villa di 250 metri quadri, con un grosso giardino, la voliera in vetro per gli uccelli (bersaglio preferito della fionda operaia) e altre amenita’ che ne certificavano la borghesita’, quali per esempio che le figlie facevano “la festa di compleanno” in giardino con i biglietti di invito al vicinato (mica seghe) invece di fare solo la torta di compleanno coi parenti.

Vabe’, comunque in un qualche momento della mia esistenza a casa mia si e’ cominciato a piangere, gridare e litigare. La ragione era una terribile parola: “cassa integrazione”. Lo so perche’ dopo aver sentito una sera di pianti e liti fra mia madre e io padre, l’indomani a scuola la maestra mi chiese notizie della “cassa integrazione allo zuccherificio”: quando in un paesino di tot anime chiude una fabbrica, LA fabbrica , e’ panico per tutti.

Inizio’ cosi’ la saga. E si scopri’ che fra tutti i compagni che componevano la strada operaia di fronte allo zuccherificio, alcuni erano “piu’ uguali di altri”.

Il concetto di base che si noto’ subito fu che alcuni, (compresi alcuni “comunisti storici”) anzi quasi tutti, furono lasciati a casa con qualche ora settimanale di cassa integrazione (16 ore, mi pare).

I sindacalisti, ovviamente, quelli che sapevano 50 parole in piu’ e potevano “andare a parlare”, rimasero dentro la fabbrica, con lo stipendio ordinario.

Tutti i lavoratori sono uguali, ma alcuni erano piu’ uguali degli altri.

Oggi sento parlare dello stress del manager. Vi posso garantire che non e’ nulla in confronto dello stress di mia madre, intorno al 25 del mese. La via reagi’ con grande solidarieta’. I vestiti passavano dai bambini grandi ai giovani l’anno dopo, sapientemente rammendati, di vicino di casa in vicino di casa. Chi aveva (un po’ di pasta in piu’, due uova di gallina) prestava, tanto il mese dopo avrebbe chiesto in prestito.

Fu un fiorire di pollai e conigliere, e di orti.

Scappare era impossibile. Al sindacato non piaceva la gente che abbandonava la lotta. La verita’ e’ che facevano carriera con le tessere. Chi provava a fare domanda nella vicina fabbrica di cucine componibili se la vedeva rifiutare, e il sindacalista dello zuccherificio gli avrebbe poi fatto notare che “qui si lotta tutti insieme, altrimensi si perde. Non farlo piu’ perche’ anche le 16 ore possono diventare 8”, avvisato dal collega sindacalista dell’altra fabbrica.

L’unica “ratline” , fatta per la fuga di operai verso altre fabbriche (anziche’ di nazisti verso il Brasile) era costituita dal prete di un paese vicino, che aveva la misteriosa capacita’ di far arrivare le domande di assunzione alla fabbrica di cucine componibili SENZA interferenze dal partito/sindacato.

Fu trasferito proprio in quel periodo. Non so se sia un caso. Ne dubito.

Ci fu anche il fiorire di “hobbies”. Qualcuno si mise con la moglie a fare maglie, altri assemblavano le bamboline “cicciobello”, uno aggiustava motociclette Guzzi, mio padre (che saldava i metalli piu’ stravaganti fra loro) riusciva con l’acetilenico a saldare assieme i pezzi di lame circolari da taglio che si spezzavano. Molti facevano le campagne dell’agricoltura , e tutti andavano a “spigolare” i raccolti.

Ma i sindacalisti erano in agguato: mai, mai la classe operaia poteva fuggire alla fame, questo avrebbe indebolito la loro determinazione alla lotta!

Di quegli anni ricordo il garage chiuso, con mio padre dentro che saldava, e l’ordine perentorio che se il porco sindacalista mi avesse chiesto di mio padre dovevo rispondere “non e’ a casa”. Nel tempo, tutti o quasi nella strada furono denunciati dai sindacalisti.

A mio padre arrivarono i pompieri “no, lei non puo tenere l’acetilene qui. Non c’entra se ha il patentino”. Al vicino qualcuno chiese cosa ci facevano tutte quelle Moto Guzzi guaste in cortile. Le magliaie andavano a comprarela lana a Ferrara per paura di essere viste. Chi andava a spigolare la campagna partiva prima dell’alba in bicicletta.

Una volta mio padre ebbe richiesta da un riccozzo del paese di una lampada in ferro battuto(2). Purtroppo il martellare sull’incudine si sentiva, e il sindacalista del cazzo (che viveva li’) ogni tanto si faceva un giretto per la via, tanto per tenersi in forma.

Col risultato che per non essere denunciato mio padre dovette costruire DUE lampade , una da tenere in casa per mentire con la carogna cigiellina, e l’altra da vendere, per la somma astronomica di ventiduemila lire.(3)

Addirittura si arrivo’ a promettere “ore in piu’” a chi avesse denunciato il compagno operaio; delazione allo stato puro.

Era un inferno fuori dalla fabbrica, ma lo era anche dentro. Alle prime avvisaglie di cassa integrazione, il sindacato diede il “tutti col piu’ lento”.

Significa questo: siccome si mormora di licenziamenti, magari qualcuno dei piu’ bravi sara’ il preferito. E magari non e’ del sindacato. Allora, con la scusa che siamo tutti uguali, chamiamo “leccaculo” quello che lavora meglio degli altri, dicendo che vuole farsi notare.

Guai a lavorare bene, in pratica i “maestri d’opera” dovevano lavorare come e quanto il piu’ fancazzista e menefreghista e incompetente degli operai, ovvero come un sindacalista.

Il risultato fu semplicemente

-Tu non devi aggiustare quella valvola finche’ anche lui non l’ha fatta.

-Ma lui non lo fara’ mai, nel suo reparto le valvole perdono TUTTE!

-Allora se vuoi riparare la tua valvola devi riparare anche la sua.

Non so come siano andate le cose dietro le quinte, ma di certo due anni di una “cura” del genere non hanno fatto bene alla fabbrica. Se anche ci fosse stato un piccolo spiraglio di speranza , una simile “cura” l’avrebbe uccisa.

“Tutti al passo del piu’ lento”, senno’ sei un lecchino e ti aspettiamo fuori. E la prospettiva di chiusura era la fame. Bei pezzi di merda.

Ovviamente manifestavano. Oh, se manifetsavano. I ricordi di infanzia sono spesso degli spezzoni , dei flash. Uno di questi flash fu di mio padre che tornava a notte inoltrata da una manifestazione a roma.

Mia madre, molto orientata al pratico, gli chiese “cosa avete saputo?”. E mio padre “niente”.

-Come “niente”? Cosa siete andati a fare allora?

-Mi hanno dato un tamburo e mi hanno detto di battere sopra, in mezzo alle macchine
-La prossima volta resta a casa a fare qualcosa.

-E come faccio? Non mi fanno piu’ entrare in fabbrica se lo faccio.

Ricordo distintamente il tono umiliato di mio padre nel parlare del tamburo, di “battere sopra” in mezzo alle macchine, come dei fessi. 200 persone in mezzo al traffico di roma, che manifestano per una fabbrica in uno sperduto paesino pieno di zanzare , coi tamburi e i fischietti. Da farsi ridere dietro.

Il mondo comunista procedeva su due binari: il sindacato trasformava la vita dei lavoratori in un inferno di sfiducia reciproca, delazione e carognaggine, mentre il partito dava il meglio di se’.

Erano a confronto due generazioni: i vecchi erano nel partito, quelli che hanno costruito il sistema emiliano. I massimalisti. I giovani “riformisti” nel sindacato, il sindacato dei pezzi di merda.

Il partito si diede da fare, e ci usci’ un tempo pieno in tutte le scuole locali (=un pasto assicurato per i bambini. mica scontato.) il grembiule scolastico per evitare discriminazioni, il cedolino per comprare il sussidiario, posti di lavoro nelle cucine scolastice, il pullmino per tornare a casa (=risparmiare benzina, soldi , le madri potevano fare dei lavoretti).

La cosa pazzesca era il doppio binario: i comunisti di ferro della Spim, quelli comunisti, che ci stavano vicino, con tutta la solidarieta’ di cui erano capaci, che facevano le collette per la pasta o per i pannolini alle famiglie coi figli piccoli, gente stupenda che ti diceva di studiare per non finire come tuo padre, perche’ la lotta era per TE.

Era il significato che loro davano alla vittoria dei lavoratori: i loro figli NON dovevano passare quel che avevano passato loro. Dovete “emanciparvi”. Non significava insultare i padri, era come dire “noi abbiamo fatto la rampa di lancio, TU sei lo sputnik, TU devi volare perche’ NOI abbiamo dato la vita per te.”

Dovete “emanciparvi”.

Emanciparsi dalla miseria, dall’ignoranza, dal parlare dialetto mentre altri, padroni e sindacalisti, parlavano italiano. Non “arrampicatori sociali”.

Emancipati.

Dalla miseria. Dalla paura dei sindacalisti. Dalla paura del futuro. Dall’ignoranza e dall’inferiorita’.

E cosi’, da un lato il sindacato aveva i suoi scagnozzi con lo stipendio pieno mentre mio padre faceva lavori in nero DI NOTTE per non venire denunciato, dall’altro il PARTITO faceva studiare nelle scuole che “siamo tutti uguali, ma alcuni sono piu’ uguali di altri” e lo insegnava nei suoi circoli.

In pratica, il partito ci insegnava a disprezzare i maiali della rivoluzione, e il sindacato ce li metteva davanti: mancavano solo le codine a turacciolo e le guanciotte rosa.

Perche’ i maiali della fattoria erano loro: i sindacalisti. Non uguali agli altri: PIU’ uguali degli altri.

C’era un partito che parlava di emancipazione dalla miseria, dall’ignoranza, di un futuro (utopico o meno) di giustizia e uguaglianza. (anche per i “foresti” come mia madre!). Parlava di uscire da questo stato , ci parlavano della grande vittoria che era andare a scuola TUTTI , nella stessa scuola, ricchi e poveri. Ci dicevano che adesso TUTTI potevamo uscire dalla miseria. Era il progresso.

E lo sentivamo dire tutti: sia chiaro, quando dico che ho passato la gioventu’ nel PCI non dico che ero nell’ FGCI. Quella era roba borghese, rispetto a noi campagnoli. Li’ nella bassa c’era lo stesso posto per andare a giocare al flipper (oddio: per guardare gli altri che giocavano, direi) per andare a giocare con gli altri ragazzi, per andare al bar, per le riunioni del partito e le feste dell’Unita’.

Ci crescevi DENTRO, ma proprio in pancia, al partito.

Fuori da li’ c’era tuo padre che veniva denunciato dal sindacalista perche’ lavorando di notte portava a casa cinquemila lire in un mese.

C’era il sindacalista che minacciava tuo padre di venire emarginato perche’ “faceva il leccaculo” saldando i tubi meglio di altri.

Perche’ il sindacato ha una visione statica delle classi sociali. Non esiste emancipazione. Il lavoratore deve essere operaio, rimanere operaio, e i SUOI FIGLI saranno ancora operai e rimarranno operai, perche’ questo e’ il loro destino, di servire il padrone e il sindacato.

Il sindacalista e’ un pezzo di merda. E’ un pezzo di merda per elezione. E’ un pezzo di merda per scelta. E’ un pezzo di merda in sostanza. E’ semplicemente un’escrescenza cistosa di quel mondo, la finanza speculativa, che deve in qualche modo contrastare i rimbrotti della parte produttiva del paese.

Fanno assolutamente schifo.

E per due motivi: perche’ sono dei fascisti E perche’ si mascherano da compagni.

C’era un vecchio compagno comunista, padre di un mio amico, io e suo figlio eravamo sempre insieme e passavo molto tempo a casa sua. Lui mi disse una volta “lo sai perche’ in Russia (=URSS) non ci sono sindacalisti?”. E io “no, perche’?”. “Perche’ i lavoratori li conoscono bene, e li ammazzano per primi, insieme ai padroni, quando fanno la rivoluzione.”

Chi parlava cosi’ non era fanatico come sembra.

Certo faceva il caffe’ alla Fidel Castro (mettendo alcool anziche’ acqua nella Moka, col risultato che la moglie portava in salvo i bambini nella stanza accanto per la paura) , ma era una persona che se parlava di Giustizia, di Uguaglianza e di Liberta’ le pronunciava in maiuscolo e anche in Bold. Non ricordo di aver mai conosciuto una persona piu’ integra ed onesta di lui.

Le cose andarono avanti cosi’ fra terrore e progresso, fino al 1983. Data in cui avvenne qualcosa di incredibile. L’ “Ingegnere” si licenzio’ e lascio’ la villa.

Tutti erano convinti che ci fosse speranza. E lo erano non tanto per le carogne di sindacalista che parlavano di lotta dei lavoratori, ma perche’ vedevano che l’ Ingegnere restava al proprio posto. E se LUI, che parlava coi piani alti e sapeva davvero come stavano le cose, rimaneva li’, allora la fabbrica prima o poi ripartiva.

Ma se LUI se ne andava, era la fine.

Se ne ando’. Arrivarono i camion e lui se ne ando’ via. A Verona, si diceva. E, peggio , nessuno arrivo’ a riempire “la villa”. Che rimase con le sterpaglie. Presto noi bambini trovammo il modo di penetrare la siepe e la volla divento’ un covo di scorribande, danni e devastazioni. (e pomiciate occulte nelle ex “stanze signorili” delle figlie dell’ Ingegnere: libidine et lussuria).

Ma se lui non c’era piu’ e non c’era speranza, allora perche’ non andarsene? Era il 1983. I mitici anni 80 erano alle porte, e “mettersi in proprio” era facile. Non c’erano neanche i registratori di cassa (arrivarono dopo, con la Visentini).

Una nube di operai si mise in proprio nell’arco di due-tre anni. Mio padre e un altro operaio si misero in societa’ per fare gli idraulici. Altri iniziarono altre attivita’ o furono assunti da chi apriva una nuova attivita’.

Era il boom economico degli anni ’80.

La sconfitta del sindacato era netta(3): loro, i sindacalisti, rimanevano in una fabbrica ormai svuotata e deserta. Erano in cassa integrazione a 40 ore, cioe’ a stipendio completo, ma solo fino al giorno della fine. Giorno in cui furono trasferiti in zuccherifici vicini , a fare i pendolari con uno stipendio da fame rispetto a tutti gli altri che erano a fare altro(4)

L’epilogo di tutto questo fu alla fine della terza media, poco prima degli esami. Uno del sindacato decise di venire a parlarci del mondo del lavoro. A scuola. Perche’ dovevamo “scegliere le superiori” per il nostro futuro.

E ci disse di scegliere l’ ITIP (una versione scadente di ITIS, “P” sta per provinciale.) perche’ cosi’ avremmo potuto diventare come i nostri padri. Operai.

Alberto, un mio compagno di classe sempre chicchettoso (la madre era francese e aveva uno stravagante asscento fransccese) disse che “la cultura era importante” e fu zittito dal sindacalista “beh, prova a mangiare, con la cultura. ti ci fai l’insalata?”.

Operai. I sindacati volevano che diventassimo operai, perche’ gli operai li avevano abbandonati.

Credo che se qualcosa avesse potuto fare pubblicita’ ai licei di Ferrara meglio di cosi’ avrebbe avuto un premio marketing.

Riferii quella cosa al bar/circolo/partito , e un contadino con le mani dure come il cemento mi disse “e per che cazzo ha lavorato tuo padre? Per farti pisciare in testa da ogni mezzagabbana(1)?”

Col senno di poi ho capito una cosa: cosi’ come per le banche i risparmiatori sono il “parco buoi”, i lavoratori sono il “parco buoi” per i sindacalisti.

Con la loro “logica del piu’ lento”, con la loro mafiosa metodologia della fame, essi hanno come obiettivo quello di mantenere nella miseria le classi per le quali ottengono pochi spiccioli in piu’, ma mai una vera e propria emancipazione.

Per questa ragione, quando uno mi parla con le parole del sindacalista, la mano mi corre alla pistola.

Tito avrebbe fatto lo stesso, credetemi. E anche Giuseppe.

Stalin, intendo…

Non so, adesso mi direte che ho conosciuto la parte brutta del sindacato, e altre cazzate del genere. Forse. Ma ogni sindacalista che io abbia conosciuto in vita mia era un pezzo di merda che avrebbe venduto la figlia a un giro di pedofili, e saperlo si da prima mi ha evitato di avvicinarmi troppo a loro.

A loro non do’ la mano.

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