Otto marzo.(Devo ancora)

Volevo scrivere qualcosa sull’ 8 marzo. Per me e’ una data dolorosissima, per questioni personali di cui NON voglio parlare. Per altri rappresenta chissa’ cosa. Ma quello che avrei voluto scrivere l’ho letto qui, gia’ scritto. Il link e’: http://seiamontanelli.diludovico.it/2009/03/07/il-mio-primo-libro/ . Ci ho aggiunto le mie considerazioni,  dal punto di vista della trincea opposta della “guerra dei sessi”. Trascrivo il testo, perche’ ho sempre la paura che le cose scompaiano dalla rete.


Il mio primo libro…
…non vedrà mai la luce.
Proprio oggi sarebbe dovuto uscire, era un pamphlet polemico sulla condizione femminile. Mi era stato commissionato, ero stata scelta per scriverlo per cui non avevo alcuna ansia di pubblicazione, nessuna ricerca spasmodica di approvazione e soprattutto di un editore, dovevo solo scriverlo. E non l’ho fatto, o meglio ne ho scritto metà e poi l’ho lasciato perdere perché non avevo alcuna voglia di finirlo. Prima o poi me ne pentirò. O Magari no.
Comunque a parte il periodo di crisi e di disinteresse per la letteratura e per tutto ciò che le ruota intorno – ma questo è un altro paio di maniche – la ragione principale del forfait è che non avevo voglia di scrivere questo saggio perché la polemica non era contro la società maschilista, contro secoli di discriminazione, contro l’idea quasi impossibile da sradicare del sesso debole, ma si rivolgeva alle donne: già dal titolo era contro le donne stesse, che avvallano spesso, tutti i luoghi comuni e le convinzioni becere di chi le considera corpi e poco altro, madri e niente di più, emozioni allo stato puro e poco cervello[1].
Io credo davvero che molte colpe siano da addebitare alle donne che non si ribellano, che scelgono di assecondare la visione limitata di molti uomini, che accettano ruoli che le relegano in certi ambiti considerati “femminili”, che magari sgomitano pur di posare in un calendario prestigioso che le ritrae come vittime di stupri o di violenza, ma mentre scrivevo e sceglievo l’ironia come registro stilistico per le mie argomentazioni e quindi cercavo anche di divertirmi, al contrario mi assaliva la tristezza: era come guardarsi allo specchio e accorgersi di odiare i tratti di famiglia. Un po’ come odiare me stessa.
E’ una sensazione molto simile a quella che mi provoca ogni anno la Festa della donna. Da una parte ci sono tutte queste donne per strada, nei locali, camminano a braccetto, ridono a voce alta, quasi a esaltare la propria presenza, molte ondeggiano su tacchi a spillo e lisciano le gonne, altre si toccano in continuazione i capelli, tutte si guardano intorno: questa serata è loro e sembrano pronte a tutto. E’ così che l’immaginario collettivo dipinge la festa della donna.
Ogni anno è la stessa storia, mamme, nonne, liceali, commesse, avvocati in carriera, modelle o parrucchiere, tutte si sentono autorizzate da una festa sul calendario e dai sorrisi condiscendenti dei loro uomini, a prendersi una pausa, a concedersi una via di fuga armate di mimose e push-up. Non ci sono cene con le amiche, uscite serali, mazzi di fiori nel resto dell’anno, non c’è tempo e forse nemmeno la volontà di concedersi una stanza tutta per sé, ma l’8 marzo tutto cambia: è la loro festa. Semel in anno licet insanire?
E di cosa parlano queste donne sedute a un tavolo in una precoce sera di primavera mentre celebrano se stesse? Ma degli uomini naturalmente. Degli uomini che le aspettano a casa, di quelli che vorrebbero conoscere, degli altri che hanno conosciuto e perso. E poi di quelli che hanno visto spogliarsi l’anno prima, quando hanno gridato la loro emancipazione trascorrendo la serata con uno spettacolo di spogliarello: niente ti fa sentire più libera e uguale agli uomini – pare – del riempire di banconote il ridottissimo slip di un giovane fusto che ti si dimena davanti.
Dall’altra parte, magari a pochi passi da un ristorante invaso di ragazze in minigonna, ci sono poche decine di donne arrabbiate e offese che in una piccola sala senza finestre, dibattono sul maschilismo di questa società che soffoca le loro ambizioni e aspettative. Sono probabilmente giornaliste, scrittrici, antropologhe, onorevoli, operaie, avvocati, dottoresse, pochissime le giovani donne e sembrano tutte chiuse nel loro rancore, ostili quasi, impegnate ad accusare tutti (per lo più a ragione) delle loro disgrazie, dimenticando di prendersela anche con le stesse donne.
E io non posso fare a meno di chiedermi sempre come abbia fatto una giornata di lotta a diventare una squallida festa. Ma anche: come ha fatto una lotta per i diritti e la parità a trasformarsi in una battaglia contro gli uomini?
Dalle parti Radio Deejay in questo finesettimana si festeggia la donna riempiendo il palinsesto di uomini, in pratica per quasi un mese hanno chiesto alle loro ascoltatrici di votare il personaggio maschile della musica, dello spettacolo, della cultura o dello sport che avrebbero voluto come ospite nelle varie trasmissioni. Ovvio. E’ la festa della donna e si dà spazio agli uomini, ancora una volta. Perché è scontato che una donna preferisca sentir parlare un uomo, perché magari è naturale che un uomo possa aver cose più interessanti da dire di una donna.
E il fatto è che, purtroppo, spesso è davvero così. Ma è così perché le donne intelligenti, preparate, colte, sveglie, faticano a emergere; e il punto, per me, è  che fatichino a emergere non solo per colpa degli uomini, ma, l’ho già detto, anche a causa di altre donne che si prestano al gioco di ruolo a cui partecipano dai tempi dei tempi, e che in larga parte legittimano col loro comportamento il silenzio e l’indifferenza, la discriminazione e la disuguaglianza di cui sono vittime e complici. .
A Radio Deejay per esempio, lavorano un sacco di donne: possibile che a nessuna sia venuta in mente che forse sarebbe stato meglio onorare una festa per i diritti delle donne dando proprio alle donne spazio e visibilità?
E’ vero poi, che il condizionamento è totale e invasivo. Anche quando riescono a eccellere, le donne sono schiave di una mentalità discriminatoria. Mesi fa Fabio Fazio ha intervistato nel suo programma Rita Levi Montalcini, e cosa le ha chiesto? Del Nobel? Della sua ricerca scientifica? Della sua vita votata alla scienza? Della sua visione del mondo? No. Le ha chiesto dell’amore, delle sue vicende affettive, dei sentimenti, dell’amore che, come si sa, fa girare il mondo. Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina per la sue scoperte sui fattori di crescita legati a organi e cellule, doveva rispondere a domande banali sulla sua femminilità, o meglio sulla visione maschile o maschilista dell’essere donna. E per assurdo, il giorno che qualcuno intervisterà un uomo, un premio Nobel magari, sulla sua mascolinità, io non mi riterrò soddisfatta, non penserò che finalmente la parità è ottenuta, ma prenderò il primo treno interstellare per Marte, perché saremo alla frutta: il livellamento verso il basso porta allo squallore, non alle pari opportunità. E’ vero che Fazio ci ha provato a ricondurre la Montalcini all’interno di quella visione maschilista, ma la signora lo ha sistemato per bene, perchè non lo fanno tutte?
Io personalmente al primo che mi regala una mimosa gliela tiro dietro, anche perché soffro d’asma e allergie varie e la mimosa per me è come la kryptonite per Superman, ma soprattutto perché io credo nei simboli, e i simboli restano tali solo finché non vengono progressivamente spogliati di significato. Se questo succede, allora diventano solo vestigia inutili o, ancora peggio, alibi dietro cui nascondere la realtà delle cose.
E dire che io festeggio tutto, da Natale a San Valentino, da Pasqua alla festa della mamma, festeggerei anche Hanukkah se non pensassi di poter essere blasfema, ma io ci credo in queste feste, le onoro, mi piace ricordarle.
La festa della donna, a chi serve davvero? O meglio, perché si finge di esserne interessati quando in realtà va bene a tutti, alla fine, che le cose restino come sono? La maggior parte delle persone, ignora persino la vera origine della festa della donna.
Era l’8 marzo del 1908 quando quindicimila donne marciarono attraverso New York richiedendo la diminuzione delle ore lavorative, aumenti cospicui dei salari e il diritto di voto. Due anni dopo, nel 1910, si tenne la prima conferenza internazionale delle donne a Copenhagen, nell’ambito dei lavori della Seconda Internazionale Socialista. La conferenza ebbe luogo nell’edificio del movimento operaio al 69 di Jagtvej: la Folkets Hus, ovvero “Casa del popolo”, chiamata in seguito “Ungdomshuset”. A dimostrazione di quanto la memoria storica della lotta per l’emancipazione e per i diritti degli individui sia allegramente in svendita in tutta Europa, questo storico edificio è stato demolito nel 2007 dalla municipalità di Copenhagen. Furono poco più di cento donne a partecipare all’evento, dibattendo strategie e proposte differenti nel metodo, quanto comuni nell’obiettivo: l’emancipazione della donna da una condizione di evidente inferiorità rispetto alla controparte maschile; e, per molti aspetti, di vero e proprio asservimento, eppure i risultati di quella riunione furono a dir poco deflagranti. Fu deciso, infatti, di istituire una festa per onorare la lotta femminile mirata al raggiungimento dell’uguaglianza sociale, chiamata Giornata internazionale della Donna, da celebrarsi proprio  l’8 marzo di ogni anno. Doveva essere una festa, ma anche un’occasione di protesta pubblica, che desse visibilità al disagio femminile e facesse sapere agli uomini che sedevano nelle stanze dei bottoni che le donne non erano affatto contente del modo in cui andavano le cose. Si trattava di scendere in piazza con canti e balli, ma anche con slogan caustici e dimostrazioni di dissenso. Bisognava far vedere a tutti – e soprattutto agli uomini – quanto le donne fossero consapevoli del proprio disagio, e al contempo determinate a cambiare le cose.
E quella decisione, sia pure presa in una conferenza con poco più di cento donne presenti, ebbe una immensa eco. In ogni Paese industrializzato – ma soprattutto nella Mitteleuropa, dove il socialismo era nato e perciò risultava più forte e combattivo -, le attiviste lavorarono affinché la partecipazione delle donne alla festa fosse grande: e l’anno dopo, nel 1911, la Giornata internazionale della donna vide scendere in piazza oltre un milione di manifestanti in Austria, Danimarca, Germania e Svizzera.
Di tutto questo è rimasto poco o niente e la colpa è di quelle donne che accettano compromessi per la loro carriera, di coloro che sfruttano il proprio corpo per facilitarsi la vita, delle madri che crescono i figli maschi senza educarli al rispetto della donna in quanto essere umano suo pari, delle tipe sui manifesti pubblicitari che posano impersonando indifese e provocanti vittime sacrificali di uomini in calore, delle femministe che se la prendono solo con gli uomini, delle scrittrici che usano il sesso per vendere più copie, mercificando addirittura se stesse, vendendo se stesse un tanto al chilo in allegato al proprio libro, o si limitano a rincorrere la voce del cuore o le sensazioni del corpo, come se le donne non potessero scrivere con la testa.
E’ una questione culturale, sociale e per molti versi soprattutto politica.
Basti pensare che alle ultime elezioni, per quanto più della metà delle elettrici pare abbiano votato a sinistra, Berlusconi ha trovato il suo zoccolo duro di elettori proprio nelle casalinghe, che forse avrebbero più recriminazioni da fare, in termini di parità e discriminazione, rispetto alle donne che hanno un impiego. Invece sembra che a loro stia bene essere definite improvvide perché non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, o sentir dire che non si possono proteggere le loro figlie dagli stupri se sono bellissime perché le forze dell’ordine non bastano a pedinarle una per una, come se fosse normale dover andare in giro con la scorta armata. Naturalmente, poi, che stiano pur tranquille le madri di figlie brutte: non hanno nulla da perdere.
Non è una querelle ideologica, lo stesso discorso sarebbe valso se a qualcuno a sinistra fosse venuto in mente di dire il mare di baggianate e battute da caserma che salgono alle labbra del Cavaliere.
La questione è molto più grave: il nostro presidente del Consiglio è il simbolo perfetto di una mentalità gretta e meschina che vede nelle donne alternativamente, un corpo, un oggetto, una bandiera da sventolare, un problema di cui disinteressarsi. Lui se ne va in giro per il mondo a rappresentarci, ed è mia convinzione che ci rappresenti benissimo, visto che l’Italia è il fanalino di coda dei Paesi dell’Unione Europea a proposito di parità di genere ed è addirittura 84ma (nel 2006 era 77esima) nella classifica mondiale sulle disparità di genere secondo il Global Gender Gap Index, lo studio del World Economic Forum che si occupa di misurare il divario economico e sociale tra uomo e donna.
Guardiamo una parte considerevole delle donne che Berlusconi ha scelto per la sua squadra di governo, le più chiacchierate naturalmente: tutte loro non sono da biasimare in quanto belle donne, o per il loro passato da veline, show-girl o di avvocati poco abili, ma perché non sono all’altezza del loro compito, perché non è per nulla chiaro il modo in cui siano giunte a quelle posizioni, per la loro palese inesperienza, e quindi perché rendono un cattivo servizio alle loro colleghe e a tutte quelle donne che devono faticare il doppio per ottenere posti di rilievo in politica, nel mondo degli affari o tra i liberi professionisti, o anche solo per avere lo stesso stipendio di un uomo in qualsiasi mansione. Il messaggio che passa è sempre lo stesso: sei bella, avvicina l’uomo potente, otterrai dei benefici, usa il tuo corpo e farai carriera, non importa che tu sia brava o meno.
Forse il ministro Mara Carfagna, se avesse fatto la gavetta anche per fare il politico e non solo la valletta – che, me ne rendo conto, è un compito più complicato che gestire un dicastero – avrebbe acquisito esperienza e autorevolezza, forse avrebbe potuto dimostrare di saper fare il proprio lavoro, forse avrebbe potuto meritarsi il suo ruolo e potrebbe difendere il suo operato a testa alta. La mentalità del suo leader ha nuociuto prima di tutto a lei stessa, che non vedrà mai riconosciuto il suo valore, se mai dovesse esserci davvero.
Lo ripeto ancora una volta, sono le donne le prime complici di un meccanismo malato che le vuole sempre subalterne, quando non le relega a un mero ruolo decorativo.
Sembra un libro contro le donne e da un certo punto di vista lo era. Non del tutto però, e la premessa che avevo scritto spiega meglio questa dicotomia.
Ma se ne riparla.


ecco, c’e’ piu’ o meno tutto quello che avrei voluto scrivere io, solo che l’autrice ha paura di arrivare a delle conclusioni.
Inizio con  un sonoro: ve lo siete meritate. Avete affidato le vostre vite ad un partito che voleva la rivoluzione, e quindi un nemico: questo ha trasformato in un nemico quel maschio che in realta’ desideravate , desideravate semplicemente diverso. Ma anziche’ dire “ti vorrei diverso” avete gridato roba ostile. Avete gridato in segno di sfida. Avete parlato di “guerra”, perche’ avete scelto una guerra. Le ragioni della sconfitta sono nella ratio del mezzo che avete scelto: la guerra (dei sessi). Conoscete questa ratio?
Clausewitz diceva che solo un idiota entra in battaglia senza sapere cosa vuole e come ottenerlo. Voi avete cercato uno scontro, processo che ha lo scopo di abbattere l’avversario, di annientarlo. Ma volevate davvero abbattere , annientare il maschio? No, volevate solo un maschio diverso. Dunque, sapevate davvero cosa volevate, quando siete entrate in guerra? No.
E sapevate come ottenerlo? Pensavate di poter lottare senza che lo facesse anche la controparte e che la lotta avrebbe scatenato cambiamento e riflessione. Ma nel maschio la lotta scatena solo desiderio di altra lotta. Sapevate dunque come ottenere cio’ che volevate? No. Avete cercato lo scontro pensando che fosse uno strumento possibile, contro un maschio il cui corpo produce testosterone solo ad ascoltare la parola. Non vi dico poi cosa provi un elemento alfa ad essere sfidato pubblicamente.

Il testosterone obbliga al conflitto: nessuno che sia sfidato e sia maschio potra’ tirarsi indietro dal battersi.
Cosi’ siete entrate nella guerra dei sessi, senza sapere cosa volevate, ne’ come ottenerlo. L’esito era inevitabile.

Vi siete battute, e avete perso, perso cosi’ tanto, cosi’ interiormente e cosi’ profondamente da amare la forma della sconfitta.
Il corpo era il territorio dello scontro, e come vuole ogni guerra esso e’ stato occupato, conquistato, colonizzato. La psiche , il territorio che volevate essere invulnerabile (ah ah ah),  come vuole ogni guerra e’ stato occupato, conquistato, colonizzato. Avete voluto la guerra contro la fazione, il maschio, che la guerra l’ha inventata e ce l’ha nel DNA fin dalla notte dei tempi: secondo voi la produzione di testosterone e’ casuale? (1)
Che genere di risultato vi aspettavate se non una risposta  aggressiva, invasiva, predatoria?
Non solo siete state sconfitte, siete state invase, occupate , siete una colonia dell’immaginario maschile.

Una risposta aggressiva, bellicosa, cioe’ maschile: aggredire, invadere, colonizzare.
E pensare che sarebbe bastato dire “vi vorremmo diversi”. Ma no, le lotta e la rivoluzioni vi sembravano piu’ belle. Nessuno vi aveva spiegato una cosa che ogni maschio impara facendo a pugni , gia’ nell’adolescenza: che le lotte, come le rivoluzioni ,si possono anche perdere.
E voi avete perso.
Buon 8 marzo.
Uriel
(1) Guardate un maschio di fronte ad un distributore automatico guasto. La reazione meno aggressiva e’ tirare un cazzotto al distributore, spingerlo, scuoterlo. Poi c’e’ quella piu’ aggressiva, che e’ tentare di capirne il comportamento: aprirlo, vedere cosa ci sia dentro, costringerlo a fare quanto desiderato: invadere, colonizzare e soggiogare. Se non si puo’, si chiama chi possa farlo, cioe’ ci si rivolge al piu’ forte. La reazione femminile e’ semplicemente di appendere un bigliettino perche’ nessun’altra ci caschi. Civilizzati o meno, cacciatori o clienti, nessuna educazione puo’ andare contro il genoma.Davvero pensavate che le madri potessero “educare” , quando c’e’ di mezzo un corpo che produce un ormone che obbliga allo scontro, fisico , politico o metaforico che sia?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *