La leggenda del negro che lavora gratis

Vedo che e’ un luogo comune diffusissimo questa leggenda dello sviluppo delle “tigri d’oriente” come risultato di un sistema schiavista basato sullo sfruttamento. Sebbene sicuramente esistano realta’ simili, non e’ a queste che si deve la crescita di paesi come Cina ed India, ma a decisioni politiche ben strutturate a riguardo. Vorrei prima di tutto smentire la leggenda semplicemente usando i numeri, e poi andare a vedere che si e’ deciso di subire la loro crescita per motivi ideologici.

Innanzitutto, come ho documentato nel post precedente , ci sono 1.400 miliardi di dollari /anno di investimenti in ricerca e sviluppo: di certo non stiamo parlando di gente che cuce palloni in una cantina buia. Ricerca e sviluppo significa che la differenza la fa il cervello migliore, che devi cercarlo, tenerlo stretto, metterlo nelle condizioni di produrre. Solo questa cifra, in contrasto con le miserie stanziate in occidente per la ricerca, basterebbe a smentire questa teoria del negro che lavora per una ciotola di riso e quindi conviene andare li’ per questo.

La seconda ragione e’ semplice: quello che conviene investendo in Cina e’ il prezzo del prodotto finale. Che e’ inferiore anche del 70%. Adesso voi direte che questo e’ dovuto al costo del lavoro. Bene. Mettiamo insieme le due affermazioni e vediamo cosa succede.

Il prezzo di un prodotto fatto in Cina puo’ essere inferiore anche del 70% rispetto a quello europeo.
Questo e dovuto alla differenza tra le retribuzioni dei lavoratori.
Risultato: in Europa il 70% del costo del prodotto va ai lavoratori. Non del plusvalore, come diceva Marx. Del costo del prodotto. Perche’ questa teoria stia in piedi si devono realizzare in occidente delle condizioni che nemmeno Marx aveva mai sognato: il poveretto aveva detto di dare al lavoratore il GUADAGNO (plusvalore), e non il fatturato dell’azienza (che e’ poi il prezzo totale dei manufatti).

Per raddrizzare le cose, bisogna splittare quel 70% di differenza sui costi in diverse voci:

Pressione fiscale. Le aziende straniere hanno goduto di un trattamento di favore, sino al 2008, dell’ 11% di tassazione sul reddito, contro il 33% medio cinese. (adesso sono stati parificati, dal 2009)
Pressione fiscale: le aziende straniere hanno goduto, sino a meta’ del 2008, di un rimborso dell’ IVA che andava dal 13% al 18% (e che oggi e’ sceso al 4%)
Rivalutazione dello Yuan: solo nel 2008 si e’ rivalutato del 21% sul dollaro, togliendo un altro 21% di margine. Solo questi tre fattori, che fanno il 22% + il 15%(1) +21% fanno un 58% di differenza sui prezzi. Capite bene che adesso , per discutere di paghe piu’ basse, se vogliamo arrivare al 70% di risparmio (che non c’e’ su tutti i prodotti) abbiamo un 22% di gioco.(2)

Puo’ sembrare allora che questo 22% sia chissa’ cosa (beh, sputaci sopra) ma bisogna capire che la merce viene prodotta a 8000 km di distanza da noi, per cui occorre un overhead organizzativo di trasporti , quindi logistica, quindi organizzazione.

Non ne resta mica tanto, da giocare sulla pelle dei lavoratori. Ed infatti, la stragrande maggioranza del risparmio veniva da questi fiscali e monetarie.

E qui e’ il problema. E’ un problema perche’ nel mondo, da sempre, la concorrenza fiscale e’ stata considerata un atto sleale e meritevole di ritorsioni: o meglio, si pensava che fosse naturale (non si vede neanche in termini di conflitto) che una nazione a pressione fiscale piu’ alta si proteggesse con una tassazione favorevole dalle nazioni piu’ aggressive sul piano fiscale.

Dico che sia naturale e non necessariamente un atto ostile perche’ il divieto di concorrenza fiscale e’ nei trattati di amizia e cooperazione: nell’ Unione Europea sia il pacchetto Monti sia l’ OCSE hanno stigmatizzato la concorrenza fiscale, vietandola e sanzionandola (3). Colpire la concorrenza fiscale non e’ quindi attivita’ ostile o segno di attrito, ma frutto e mezzo di cooperazione: un atto comprensibile e normale.

Di conseguenza, non sarebbe stato nulla di strano se la UE avesse risposto alla concorrenza fiscale cinese compensandola con dazi fino al 37%, somma del -22% di imposte dirette e del -15% di rimborso IVA praticato dai cinesi agli investitori stranieri che investivano li’.

Oppure, praticando le stesse condizioni ad aziende orientali che investissero in UE o in USA.

Questo non si e’ fatto, e non e’ che non si sia fatto perche’ impossibile o impensabile: recuperare la concorrenza fiscale e’ un atto storicamente normalissimo e norma interna UE. Si e’ fatto per scelta politica: si poteva decidere cosi’ o diversamente, fino a quel momento si era fatto diversamente, verso qualsiasi altro paese che pratichi concorrenza fiscale l’ OCSE pretende ritorsioni alla frontiera, verso la Cina si e’ deciso di fare diversamente.

E’ stata una decisione, non e’ stato il vento e non era obbligatorio.

Il secondo punto e’ quello della concorrenza monetaria. E’ vero che la svalutazione della moneta e’ un diritto di ogni banca centrale: tenere la moneta a quei livelli con il PIL che cresce del 13% annuo e’ pero’ un atto meno comprensibile. E’ come se Trichet decidesse di svalutare del 80% l’ EURO: certo che sarebbe suo diritto, e probabilmente l’europa avrebbe un gigantesco sussulto di produzione: se a questo si aggiungessero tassi come quelli cinesi e l’inflazione cinese, beh, con ogni probabilita’ ci dichiarerebbero guerra o ci si ritorcerebbero contro con misure di frontiera.

La svalutazione e’ uno strumento che si usa, ma bisogna usarlo dove ci sono i margini: e la Cina NON aveva i margini per tenere la propria moneta il 21% piu’ bassa del dollaro con l’ Euro (unica moneta mondiale da contrappeso nel forex) in crescita e lo Yen sotto i tacchi con tassi a zero.

In questi casi le nazioni reagiscono tassando i flussi finanziari e monetari adeguatamente, in modo da bilanciare i vantaggi della moneta svalutata: non possono cancellarli del tutto , qundi svalutare da’ ancora vantaggi, ma possono attenuarne gli effetti.

Nessuno ha preso questo provvedimento: presi da questa ideologia, si e’ lasciato che i cinesi facessero, oltre che concorrenza fiscale, anche concorrenza valutaria, raccontando in patria che i prodotti costassero meno perche’ la manodopera costava di meno. Ma non e’ vero: il costo di mantenimento della manodopera semischiava, rispetto alla produttivita’ che si ottiene con macchine+ operatori scolarizzati, e’ minimo.

Se una caverna di schiavi fosse in grado di competere con un’industria automatizzata, del resto, la rivoluzione industriale non sarebbe mai nata, perche’ le baracche di schiavi del 1700 avrebbero schiacciato le nuove tecniche industriali. Se l’industria ha distrutto l’artigianato del 1700 e’ perche’ era piu’ conveniente il telaio a vapore che il bambino schiavo delle campagne , ragione per cui evidentemente non c’e’ la possibilita’ di sconfiggere l’industria giocando solo sul costo del lavoro e sulle sue condizioni.

In definitiva, quindi, la situazione cinese e’dovuta, piu’ che altro, alla decisione di permettere ai cinesi di fare concorrenza fiscale al mondo intero senza intraprendere nessuna delle misure che di solito si attuano in questi casi, e di tollerare una quantita’ monetaria del tutto ingiustificabile se non con la volonta’ di distruggere le altre economie industriali.

Si e’ trattato di scelte, di scelte fatte coscientemente, delle quali nessuno e’ stato ancora chiamato a rispondere perche’ non e’ mai stato chiarito abbastanza, e magari coi numeri, di che cosa si stia parlando. La storia del negro che lavora a due lire nella baracca cinese e’ falsa. Ma ci e’ stata raccontata cosi’: per nascondere il fatto che si sia DECISO di operare in un certo modo.

Uriel Fanelli, 13.02.009

(1) calcolo una media fra 13 e 17
(2) per gli amanti delle fonti: Il Sole 24 Ore – Luca Vinciguerra 30.10.2008 , Sergio Miele, UniCredit-Shanghai Representative Office ( http://uninews.unicredito.it/it/articoli/page.php?id=10047 )
(3) per gli amanti delle fonti: “Integrazione economica e convergenza dei sistemi fiscali nei paesi U.E.”, AA. VV., Giuffrè Milano, 2000.

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