Della guerra.

Tra i blog farlocchi che si sono scagliati contro il mio scritto sul darwinismo di Hamas ce n’e’ uno che e’ particolarmente cialtrone, nel senso che fa particolarmente uso di una qualita’ della cultura mainstream, ovvero l’irreggimentazione bipolare. Come tutti i siti che parlano molto della questione palestinese, il suo sito parla molto di guerra, nonostante il fatto che lo scrivente ne ignori completamente le basi filosofiche.

Chi tiene quel blog viene dalla cultura politica degli anni’70, i quali avevano definito un concetto di “lotta” nel quale:

  1. A farsi male erano sempre i fessi e mai i capi.
  2. Quando la lotta contro il sistema finiva male il sistema veniva processato in tribunale per eccesso di lotta.
  3. Si presumeva/affermava che le ragioni dei lottatori fossero tra le cause o tra gli auspici di vittoria.

Questo veniva da una cultura della “rivoluzione” secondo la quale il popolo che insorge ha sempre ragione (1) e , sebbene piu’ debole militarmente, vincera’ senz’altro in quanto ha ragione. E questo avverrebbe, nella logica di quei farlocchi, perche’ coloro che lottano sono protetti da un qualche garantismo giuridico contro lo strapotere dell’avversario.

Insomma, il loro paradigma e’ il Vietnam(1). La loro idea di lotta e’ quella di salire sul ring con un avversario straforte e:

  1. Quando colpisci tu violando la legge, giustificarti con i torti che avresti subito dal sistema.
  2. Quando colpisce il sistema , gridare che non e’ abbastanza tollerante verso di te, e che sta violando la legge.

Quello che questi farlocchi non capiscono e’ che una simile situazione, effettivamente in atto negli anni ’70, non puo’ sussistere che in periodi storici fortemente anomali, caratterizzati da conflitti generazionali di vasta portata, e da un senso di debolezza sistemico diffuso ad ogni livello. Cioe’: chi si sente debole nelle proprie ideologie fondanti si chiede se per caso non possa aver ragione l’avversario, indebolendosi ancora di piu’.

Fortunatamente, dopo gli anni ’70 sono arrivati gli anni ’80, nei quali l’occidente ha risolto i propri problemi di identita’ , creando un’ideologia forte che ha chiamato lifestyle, e risolvendo la diatriba fra rivoluzionari e conservatori attraverso il fenomeno della moda, ovvero la novita’ vissuta come tradizione(2).

Ma peggio, l’uomo occidentale si e’ identificato con il proprio stile di vita. Il che significa che considera “bene” o “buono” chiunque abbia uno stile di vita simile al proprio, e “male” o “straniero” chiunque abbia uno stile di vita molto distante. Poiche’ lo stile di vita e’ un fatto materiale, questa ideologia e’ molto piu’ robusta persino del cosiddetto “pensiero forte”, e di conseguenza tollera qualsiasi sacrificio, spargimento di sangue, impegno collettivo.

Va da se’ che oggi bombardare un villaggio vietnamita col Napalm non e’ piu’ da considerarsi malvagio ( a meno che lo stile di vita delle persone che scendono in piazza non preveda di scendere in piazza contro questa cosa(3)) nella misura in cui lo stile di vita sia minacciato da quelle persone la’,o addirittura nella misura il cui lo stile di vita occidentale sia minacciato dallo stile di vita di quelle persone.

Una volta dotato di una ideologia cosi’ forte, forte nel senso filosofico, ovvero “forte” nel senso che basandosi su effetti materiali NON e’ considerata oggetto di critica filosofica, l’occidente non si sente piu’ in “declino” se non nella misura in cui vede cambiare il proprio stile di vita: poiche’ pero’ il cambiamento puo’ essere inglobato nella moda come nuova moda, ecco che nemmeno questo inficia piu’ di tanto. Se siamo in crisi, gli stilisti faranno nuove collezioni per i tempi della crisi, disegneranno una “donna del tempo della crisi”, e il rituale della moda rafforzera’ l’identita’ occidentale creando lo stile di vita dell’occidentale in crisi. Fighissimo, ma in crisi.

Cosi’, oggi il sistema non si chiede piu’ se per caso gli avversari possano avere ragione, convinto di aver trovato un pensiero fortissimo,anzi: essendo materiale, direi che il pensiero moderno si possa classificare molto oltre il semplice “pensiero forte”, finendo con l’essere un “pensiero empirico”, cioe’ un pensiero che si suppone semplicemente enunciare  un fatto: lo stile di vita occidentale.

Chiaramente, procedendo in questo modo finisce il dubbio sistemico e la guerra torna ad essere cio’ che era: il dominio della forza.

Per queste persone , pensare alla guerra come “dominio della forza” e’ impossibile: se la guerra e’ il dominio della forza, succedera’ che la ragione diventi indifferente. Mi spiego: questi signori presumono che chi abbia ragione o abbia subito dei torti sia avvantaggiato per qualche motivo e inevitabilmente destinato a vincere.Credono cioe’ che l’aver ragione infici in qualche modo l’esito di uno scontro militare.

Il problema e’ che la guerra e’ esattamente il contrario: quando si va allo scontro si parte dall’idea che la ragione termini. In uno scontro, quindi, e’ possibile che il buono perda. E che perda chi ha ragione. Questo avviene non perche’ la guerra sia moralmente malefica, ma perche’ la guerra e’ indifferente alle ragioni. Anzi, per la precisione e’ invariante alle ragioni.

Pretendere di vincere una guerra perche’ si ha ragione e’ come pretendere che il pesce abbocchi perche’ si ha fame: si sta chiedendo all’universo fisico di obbedire al pensiero umano, da cui arriva l’idea di aver ragione o torto, o di aver fame.

Stabilito il fatto che la guerra non obbedisca al fatto di aver ragione o meno, bisogna arrivare ad una teoria politica che consideri la guerra per quello che e’: se la guerra ti permette di arrivare ai tuoi obiettivi a prescindere dal fatto di aver ragione o torto, mentre in un dibattito vince chi ha ragione, e’ chiaro che la fazione che ha torto scegliera’ la guerra, nella misura in cui pensa di vincerla.

In pratica, se io pensassi di avere ragione e che Israele abbia torto, sapendo che Israele sia militarmente piu’ forte prevederei, molto facilmente, un uso della guerra: uscendo dal dominio della ragione e finendo nel dominio della forza, chiaramente il forte domina senza dover fornire delle ragioni.

Va da se’ che inneggiare alla lotta , di qualsiasi tipo sia, e’ assurdo: essendo la guerra il dominio della forza, ci si mette esattamente nella situazione in cui vince chi ha piu’ forza, e non chi ha piu’ ragioni. E se si pensa di avere piu’ ragioni che forza, si tratta della scelta peggiore possibile.

Il secondo concetto che i siti farlocchi non capiscono e’ che il problema della pressione dell’opinione pubblica, cosi’come il problema della reputazione, valgono ancora nel campo del dibattito, e non in quello della lotta. Mi spiego meglio: se sulla questione Israelopalestinese ci fosse un dialogo tra le fazioni, probabilmente tutte le fazioni si sforzerebbero di fornire al dibattito le migliori argomentazioni possibile.

Se in Italia si stesse dibattendo il comportamento da tenere nei confronti del conflitto, e’ chiaro che Israele avrebbe tutto l’interesse a fornire un’immagine migliore che sostenga le sue azioni, e i palestinesi dovrebbero fare altrettanto. E lo stesso vale per il resto del mondo: se ci fosse un dibattito , fondato sulle argomentazioni, sul conflitto, probabilmente sarebbe vantaggioso per le fazioni fornire i migliori argomenti possibili, ovvero tenere un comportamento facilmente difendibile.

Ma le cose non stanno cosi’: il dibattito in questione e’ stato radicalizzato, con il risultato che e’ del tutto irrilevante fornire buoni argomenti. Nel momento in cui gli Israeliani si sono resi conto del fatto che la loro immagine NON PUO’ peggiorare, ovviamente non terranno conto dell’impatto del proprio comportamento.

Ma c’e’ di peggio: nel momento in cui si sono resi conto che la loro immagine NON PUO’ migliorare, non solo non avranno remore a picchiare piu’ forte, ma non avranno nemmeno dubbi sull’opportunita’ di farlo. Perche’ mai comportarsi meglio, se non cambierebbe una virgola, quando bombardare piu’ duramente fiacca il morale del nemico?

Quello che e’ successo nella radicalizzazione ideologica del conflitto, ovvero nella sua trasformazione in “lotta”, e’ che i filoisraeliani rimangono tali qualsiasi cosa succeda, e lo stesso accade per i filopalestinesi. In queste condizioni, non ci sono dubbi nella scelta degli strumenti da usare: quelli piu’ dolorosi per il nemico. Tanto, non cambia nulla.

E’come se durante la guerra del Vietnam tutti i cittadini americani avessero deciso che il governo americano era da condannare anche quando si comportava bene, e sarebbe stato ugualmente colpevole anche se si fosse ritirato dal Vietnam, e che bisognasse votare contro il presidente in carica qualsiasi cosa avesse fatto in Vietnam: il presidente avrebbe dato per persi quei voti, e avrebbe seguito gli interessi delle lobby dei militari.

Oggi, in Israele, nessuno pensa piu’ di poter avere una migliore immagine. Nessuno pensa piu’ di poter cambiare qualcosa: essendosi radicalizzata l’idea del conflitto, essa non puo’ piu’ cambiare. Di conseguenza, la pressione dell’opinione pubblica internazionale non fa ne’ caldo ne’ freddo agli analisti locali: tutti rimarranno della propria idea, qualsiasi cosa succeda.

Ed ecco che la farlocca idea di “lotta” di queste persone finisce con il ritorcersi contro la loro “causa”: sperando che qualche garantismo leghi le mani di Israele trattenendo l’ IDF dal picchiare troppo forte, questi signori continuano a sponsorizzare scontri che portano a dolorosissime sconfitte, avendo solo da gridare perche’ nessuna mamma interviene a separare i contendenti: abituati all’idea di poter trascinare in tribunale il poliziotto che picchia troppo, questi teppisti d’alto bordo cultuale scoprono di vivere in un mondo ove il poliziotto che picchia troppo viene decorato con una medaglia.

E scoprono che , contrariamente a quanto veniva raccontato loro, non basta pensare di aver ragione per vincere una guerra, in quanto la guerra e’ il dominio assoluto della forza ed ignora completamente i concetti di “torto” o “ragione”,cosi’ come quello di “sopruso”.

In generale, una fazione militarmente debole che ritenga di aver ragione dovrebbe cercare un dibattito e non una guerra. Essa dovrebbe eleggere il dibattito a metodo, perche’ solo nel dibattito le ragioni contano qualcosa. Al contrario, una fazione che abbia torto si armera’ sino ai denti e cerchera’ la guerra, in modo da trovarsi in un dominio ove cessi il potere delle ragioni.

Se, come nella visione dei farlocchi, fosse vero che il palestinesi (militarmente deboli) hanno ragione, e che gli israeliani (militarmente forti) hanno torto, e’ ovvio che ogni genere di azione militare o di confronto militare andra’ a favore di Israele, perche’ nelle condizioni date lo scontro avverrebbe nel dominio ove Israele avrebbe (secondo quegli assunti)  di piu’ da guadagnare.

Ovviamente , si tratta di concetti semplici semplici che non dovrebbe essere necessario spiegare a questi signori che vanno in giro a fare conferenze sulla guerra tra israele ed i palestinesi: dovrebbe essere ovvio come chi va in giro a tenere conferenze su una guerra sappia cosa la guerra sia e quali ne siano le basi filosofiche.

Cosa che non e’: quando si parlava dei loro maestri definendoli “cattivi maestri” non si intendeva tanto “maestri che predicano il male”, ma semplicemente come “maestri che ti porteranno ad un disastro perche’ sono dei coglioni e non capiscono un cazzo delle cose che pretendono di insegnare”.

Ah, si’: rimane un punto poco chiaro a questi idioti. Essi si premurano a parlare del fatto che “Uriel parla solo per se’”. A parte il fatto che da queste parti (cioe’ secondo me) si tratta di una cosa di cui andare orgogliosi, io e i miei due gatti superiamo vastamente di numero il fronte filopalestinese/antiimperialista, a patto di evitare “trucchi moltiplicatori”  che creano l’illusione del numero. Tantevvero che loro per fare una squadra intera hanno bisogno di mettere insieme comunisti e fascisti, segno che nessuna delle due fazioni e’ abbastanza numerosa da fare una squadra di suo.

Detto come va detto, signori, e’ meglio parlare per se’ medesimi che per una rete inesistente di sostenitori. E quando dico inesistente non dico che non esistono qualora ci sia da fare un barbecue antimperialista: intendo dire che non esistono quando ci sia da impegnarsi personalmente per aiutare qualche amico. Tipo diciamo, se arriva la polizia alle 5 del mattino e c’e’ da aiutare qualcuno a pagare un processo: in quel caso, si vede a quanti ammontino i militanti.

Come venne fatto dire a Leonida nel film 300: “come vedi, io ho portato molti piu’ soldati di te”.

E se te lo dice un tizio che e’ da solo, secondo me e’ il caso di preoccuparsi.

Uriel

(1) I vietnamiti hanno perso un milione di uomini contro i 55.000 americani. E oggi il Vietnam e’ praticamente tutto capitale americano.  Meno male che hanno vinto.

(2) La moda non e’ altro che una tradizione del cambiamento. Come ogni tradizione, essa ha dei rituali cadenziati, che so io la nuova collezione autunno inverno, che devono ripetersi in continuazione. Come ogni cambiamento, ad ogni giro di ruota devono venire proposte delle novita’ . La doppia valenza di liturgia periodica e di innovazione continua produce una sintesi tra conservatori e rivoluzionari, cessando cosi’ i conflitti interni.

(3) Esiste ovviamente anche lo stile di vita “antagonista”, nel quale gli antagonisti occidentali si identificano, trovando cosi’ l’identita’ nell’unico modo che gli anni ’80 abbiano mai consentito: gergo parlato, abbigliamento, alimentazione, abitudini sessuali, tipo di beni consumato, musica ascoltata.

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