Commercio equo e solidale, la truffa: parte II

Vedo dai referrer che un mio articolo e’ stato postato su un sito di cialtroni parapolitici, (indymedia), e i primi saccentozzi (senza mai giustificare quanto dicono) si sono scatenati a definire lo scritto alla maniera tipica del fighetto radicalchic: costui non sa o non capisce.

Allora, vediamo di argomentare ancora meglio le mie affermazioni sul cosiddetto commercio “equo e solidale”. La prima affermazione e’ questa: si tratta di beni a redditivita’ troppo bassa per garantire sviluppo a chiunque.

Cosa intendo per “redditivita’”? Per redditivita’ intendo la quantita’ di soldi che e’ possibile tirar fuori da una certa quantita’ di lavoro, espressa in ore-uomo, fatta per produrre qualcosa. Se un uomo produce 15 tonnellate di zucchero l’anno, e lo zucchero costa 100, venduto con un margine di 10, per ogni tonnellata, evidentemente quest’uomo guadagnera’ al massimo 150.

Questo dato non e’ inficiabile da nessuna considerazione di tipo politico: datosi che il prezzo di mercato e’ tale, e che per produrre certe quantita’ di qualcosa occorrano X uomini, calcolare il reddito massimo teorico non e’ difficile, che si tratti di coltivatori di barbabietole o di coltivatori di canna da zucchero.

Ora, prendete una popolazione dedita alla coltivazione di barbabietola, come nella bassa ferrarese. Convertite la produzione in canna da zucchero. Ammesso che cresca nel ferrarese e che anche produca la stessa quantita’ di zucchero, si da’ il caso che per arrivare alla stessa quantita’ di zucchero ci debbano lavorare cinque volte tante persone.

Ora, se il singolo agricoltore oggi guadagna, diciamo 20.000 euri l’anno, il suo reddito calerebbe ai 4000. Il suo operaio, dovendo dividere con altri 4 il reddito che lo sfama, verrebbe a guadagnare un quinto , cioe’ piomberebbe nella miseria piu’ nera.

Adesso proviamo a pensare di convertire una piantagione di zucchero di canna in barbabietole. Innanzitutto, il reddito quintuplicherebbe. Inoltre, mentre lo zucchero di canna viene trasportato spessissimo in forma liquida e poi lavorato altrove, lo zucchero di barbabietola necessita di lvorazione industriale. Occorrono ingegneri chimici, meccanici, elettronici, eccetera.

Il che significa una cosa molto semplice: il primo passo per lo sviluppo consiste nel passaggio da produzioni a basso reddito , verso produzioni ad alto reddito. La prima operazione da fare nei confronti dei paesi poveri non e’ quella di comprare le cose che producono oggi, perche’ li si mantiene nella miseria: una produzione a basso reddito produce SOLO miseria, per quanto sia alto il numero di addetti e per quanto sia grande il fatturato.

Qual’e’ il problema? Il problema e’ che il cosiddetto “commercio equo e solidale” non va a comprare microchip o software in brasile, ma ci va a comprare caffe’ nemmeno torrefatto e canna da zucchero. Due delle produzioni a piu’ basso tasso di reddito del mondo.

Cosa si otterra’ in questo modo? Sviluppo? No, si otterra’ che sempre piu’ gente sara’ impegnata in un settore economico senza riscatto, perche’ i pochi soldi che si guadagnano con tale produzione vanno divisi in troppi.

Coltivazioni come il farro, la ghianda, la castagna, ed altre sono scomparse proprio perche’ il reddito era basso. Il contadino coltivava piante con una redditivita’ maggiore, abbandonando quelle coltivazioni poco produttive e poco redditizie , per le quali la stessa terra produceva beni meno costosi e specialmente con meno utile.

Questo e’ il primo danno del cosiddetto commercio equo e solidale: sostenere settori produttivi a basso reddito ma ad alta “radicalchichness” . E’ bello e faigo pensare ai contadini sudati che tagliano la canna da zucchero, cantando il gospel. Il problema e’ che questi cantano il gospel della miseria, e se si continua a comprare quell roba continueranno cosi’.

Il secondo problema e’ questo: il valore aggiunto. Se per un prodotto molto raffinato sono necessari 10-15 passaggi, il risultato e’ una catena di istribuzione, di trasporti e di servizi che non solo ne alza il prezzo, ma ne alza il reddito. Non c’e’ dubbio alcuno che per arrivare alla produzione di un microprocessore si produca piu’ PIL (e quinsi si sfami piu’ gente) rispetto a quando non si produce un sasso dipinto.

I paesi che commerciano cose piu’ raffinate e lavorate non fanno altro che veder salire la propria bilancia commerciale, per la semplice ragione che se il lavoro si paga, la produzione piu’ lavorata e piu’ industriale e’ proprio quella che sfama piu’ gente. Solo che non sono piu’ tanti negri che cantano il gospel , ma sono dei poveri sfigati di ingegneri, e altri “borghesi” che secondo la feccia da centro sociale non meritano niente.

Ora, entrate in un negozio “equo e solidale”. Io l’ho fatto. C’e’ tutta roba che non solo e’ pochissimo lavorata, ma e’ VOLUTAMENTE cosi’. Quasi viene ostentata la mancanza completa di lavorazione industriale, quasi fosse un pregio. Quasi come se il prodotto piu’ primitivo fosse quello che maggiormente rispetta e arricchisce queste popolazioni.

Ma non e’ vero: se comprassimo lo zucchero di canna ALMENO in sacchi ,dovremmo almeno pagare un tizio che mette lo zucchero dentro i sacchi. Magari prima o poi qualcuno lo farebbe con una macchina, e qualcun altro si troverebbe a doverla manutenere. E’ cosi’ che si produce sviluppo. Invece no, lo zucchero in questione viene esportato in forma liquida, perche’ e’ piu’ semplice ficcarlo dentro una nave cisterna: la follia pura.

In questo modo, la feccia romanticoide puo’ mantenere la propria gestalt di negri belli e sorridenti che cantano il gospel, di donne con le gonne lunghe e larghe , sporche e abbruttite ma felici, col bambino in braccio, che ride.

Quello che non sanno e’ che se almeno si iniziasse a lavorare almeno in parte quello zucchero, la donna in questione diventerebbe probabilmente la moglie di un operaio, e forse un figlio su tre potrebbe studiare. Alla seconda generazione, il figlio di operai potrebbe mandare un altro figlio a scuola.

E’ cosi’ che funziona lo sviluppo: l produzione si sposta sempre di piu’ verso beni piu’ redditizi, e piu’ lavorati, in modo da accrescere sia il valore dei servizi che il margine di contribuzione.

Invece, questi signori contribuiscono ad aumentare una domanda di prodotti primitivi, poco redditizi e addirittura seminano una cultura secondo la quale il cioccolato grezzo sarebbe migliore e aiuterebbe di piu’ i contadini che lo coltivano.

L’ultima fregnaccia che raccontano questi signori e’ che in questo modo essi andrebbero contro le multinazionali perche’ la gente compra cose che non passano per le mani sporche dei capitalisti.

Al contrario: mantenendo una domanda di prodotti a bassa raffinazione e a bassa redditivita’, di fatto consegnano alle multi il monopolio sui prodotti piu’ redditizi. E’ chiaro che il nostro radicalcic andra’ a comprare cioccolatini equi e solidali, fatti con una pressa di legno, a 5 al giorno , in qualche luogo, da negri che cantano il gospel. Il guaio e’ che in questo modo non vanno a fare concorrenza al prodotto industriale, che con i suoi 356 ripieni e i 22 formati diversi occupa il resto del mercato.

E questo vale per tutto: comprando vestiti di lana grezza, non si fa concorrenza a Chanel, per la semplice ragione che si tratta di mercati diversi. Quello che si fa e’ condannare una parte del pianeta tutto sommato produttiva ad un settore non competitivo dell’economia, vivacchiando su acquisti che sanno di elemosina, a stare a testa bassa e a non provare nemmeno ad entrare nel mercato dei beni altamente produttivi.

Se i signori equi e solidali fossero davvero interessati allo sviluppo, dovrebbero iniziare a scegliere produzioni piu’ redditizie, come primo passo. In secondo luogo, dovrebbero iniziare a chiedere il prodotto sempre piu’ raffinato: almeno confezionato e semilavorato, per iniziare. Solo inquesto modo si formano le prime figure professionali a reddito piu’ alto.

Ma finche’ dai paesi poveri si continuano a comprare dei beni abasso reddito, e per di piu’ ci si ostina a preferire ideologicamente (o radicalchicchescamente) il prodotto meno lavorato, non si fara’ altro che rinforzare la gabbia di miseria nella quale questi paesi vivono. Si continua ad alimentare un mercato che produce solo POVERI.

E la cosa non fa altro che autoalimentarsi, nella misura in cui a piu’ poveri corrisponde una maggior propaganda contro la miseria, (guarda quanti negri che cantano il gospel) la quale non produce altro che altri acquisti equi e solidali, i quali sostengono proprio lo status quo che produce miseria.

il DRAMMA dei paesi poveri e’ quello di produrre solo beni a bassa redditivita’ e a scarso valore aggiunto. Sostenere tali commerci non fa altro che mantenere in vita tale status quo. Non per niente i paesi che stanno sviluppandosi, come Cina ed India, non lo stanno facendo vendendo stracci e riso, ma vendendo prodotti raffinati e servizi ad alto valore aggiunto.

Il cosiddetto commercio equo e solidale e’ la cosa piu’ pazzescamente colonialista , iniqua e sciovinista che possa esistere. E’ qualcosa che se praticato su larga scala non solo garantisce alle multinazionali occidentali il monopolio sui beni ad alto reddito , ma mantiene nel loro status quo i paesi poveri.

In compenso, fa un gran figo.
Wow.

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