C’ e’ l’impronta di Soros sul “NO-B-Day”?

Sul No Berlusconi Day si e’ detto di tutto, tranne per il piccolo fatto che si e’ deciso di non parlare dell’organizzazione. Da quando e’ nata la rete la si e’ accusata di permettere a “partiti spontanei” di sorgere ed organizzarsi. Il cittadino comune spesso ci crede, dal momento che non ha una vera esperienza di organizzazione di eventi: che cosa ci vuole, in fondo, per portare 30.000 persone in una piazza?

Se provate a realizzare effettivamente una cosa del genere, i dettagli vi schiaccieranno, a partire dal semplice palco (e no, non c’e’ ragione per la quale Grillo abbia i contatti per montare un palco in piazza, certificato e secondo norme vigenti) fino al garantire insieme alle istituzioni cittadine un corretto deflusso delle persone.

E’ possibile che qualcuno creda davvero ai “comitati spontanei” che secondo Di Pietro sarebbero “nati da Internet”, ma sono gli stessi dati che loro stessi pubblicano a smentirli.

Fino ad oggi Beppe Grillo pubblica questo link : http://www.beppegrillo.it/immagini/immagini/alexa1.jpg , ove si trova la seguente immagine, che pretende di manifestare la sua potenza.Il problema e’ che invece dimostra l’impossibilita’ di raggiungere un simile pubblico.

Dati Alexa
Dati Alexa

Ecco la verita’ fornita da Grillo: il suo blog rasenta a malappena la capacita’ del sito di Unita’ o del sito del Giornale, entrambi del tutto incapaci di organizzare iniziative di piazza di quella dimensione. L’unita’ e’ arrivata al massimo a qualche girotondo, e non si ricordano adunate oceaniche scatenate dal Giornale.

A questo punto ci si sfoga dicendo che e’ stata “la rete”, “la rete ha organizzato la gente”, ma sono tutte minchiate. Innanzitutto perche’ in rete ci sono le stesse persone che ci sono fuori dalla rete, e in secondo luogo perche’ non si sono mosse le solite organizzazioni sindacalie politiche (i professionisti della piazza) che di solito sono dietro questi eventi.

Chi ha messo , allora, lo zampino nell’organizzazione? Diciamo che ce lo ha messo qualcuno che ha anche lasciato la firma.

Avete presente la “rivoluzione Arancione” in Ukraina, con la quale si e’ tentato di destabilizzare il governo locale e organizzare un colpo di stato filoamericano? Essa e’ stata organizzata da alcune “agenzie specializzate” anglosassoni, specializzate nell’esportazione della democrazia, e finanziata da una “certa finanza” il cui esponente piu’ visibile e’ un certo “filantropo” di nome Soros.

La “firma” di questa organizzazione e’ quella di caratterizzare le sue “rivoluzioni” attraverso un colore specifico indossato a mo’ di simbolo dai “manifestanti” (in realta’ disoccupati locali reclutati a pochi dollari al giorno e trasportati sul posto); cosi’ la rivoluzione Ukraina e’ stata la “rivoluzione arancione” , e quella di Di Pietro doveva essere la “rivoluzione viola”.

Questo “viola” , questa scelta di caratterizzarsi mediante un abbigliamento specifico e’ la pistola fumante, se volete la firma , di questa organizzazione specializzata nell’ “esportare la democrazia”. Lo schema e’ abbastanza chiaro , anche se le cose non sono andate proprio come si voleva.

  • Il solito articolo del Financial Times e’ caduto nel vuoto. Del resto, dopo che la classe dirigente USA ha regalato al mondo una crisi da 90 milioni di nuovi poveri, e delle riforme di Obama non si vede traccia, il Financial Times dovrebbe avere altro di cui occuparsi.
  • Il pentito spatuzza che doveva essere una bomba atomica ed invece e’ stato poco piu’ di un petardo. Doveva dire di aver visto Berlusconi mentre metteva le bombe, e ha solo detto che un tizio gli ha detto, una volta, che un signore di canale 5 (il portinaio?) gli avrebbe “consegnato l’italia in mano”, e non si capisce come, visto che in quel periodo nessuno, a canale 5 , possedeva il paese.
  • La “rivoluzione viola” non ha funzionato. Come prevedibile. Mentre in Ukraina non hanno alcuna esperienza in periodi di tensione partitita, da noi dopo gli anni ’70 l’esperienza c’e’. Si puo’ pensare di paralizzare i lavori delle istituzioni manifestandoci di fronte in Ukraina, qui da noi una simile ingenuita’ non viene concessa, e una schiera di tornelli e di celerini punirebbero duramente qualsiasi tentativo del genere.

Tutto, insomma, e’ andato storto. L’urgenza c’era: Edf ha deciso di entrare nel consorzio degli oleodotti orientali, dando un imprimatur definitivo allo sbarco di idrocarburi russi in Europa; il risultato e’ che con l’entrata in funzione delle pipeline, gli idrocarburi del mare del Nord (se ce ne saranno ancora) avranno prezzi fuori mercato. Norvegia e UK stanno per ricevere un’altra botta molto forte, e proprio dall’ Italia. (1) C’e’, in altre parole, una grande urgenza nel far crollare questo progetto; ma l’ingresso di Edf nel consorzio rende piu’ difficile il lavoro, e la scelta dei bielorussi di usare Berlusconi come ponte per uscire dall’isolamento internazionale, diventando i bianchirussi a loro volta protagonisti dello scontro petrolifero, rafforza ancora di piu’ le posizioni italiane. Questo spiega, effettivamente, il fallimento dell’operazione.

Quando cesseranno i tentativi di colpo di stato da parte degli angli? Non appena si superera’ il limite per il quale la politica internazionale italiana sara’ irreversibile, se non negli atti almeno negli effetti. E’ un fatto che il ministero di Maroni abbia arrestato, in media, un capomafia al giorno. Puo’ darsi che questo sia un “cancellare le prove”, in ultima analisi, ma e’ effettivamente vero, nei numeri, che nessun governo prima aveva mai portato al punto di oggi.

«Dopo l’arresto di Gianni Nicchi, possiamo dire che la mafia palermitana è completamente allo sbando», conferma il procuratore di Palermo Francesco Messineo, durante la conferenza stampa in cui sono stati illustrati i particolari dell’arresto del boss Gianni Nicchi. Commentando l’esultanza di decine di cittadini, Messineo ha aggiunto: «A Palermo molte cose sono cambiate. Mai, prima, avrei pensato di vedere una partecipazione simile tra la gente. Catturare un latitante del calibro di Gianni Nicchi, in un territorio ostile come quello di Palermo, ha un che di miracoloso. Eppure è un traguardo messo a segno dagli uomini».

Rischio camorrizzazione. Secondo il questore del capoluogo siciliano, Alessandro Marangoni, la decapitazione dei vertici e dei quadri di Cosa nostra, crea il rischio di una “camorrizzazione”. Che piccole organizzazioni criminali, cioè, ingaggino una guerra per il controllo della città

Mai, prima di oggi, ci si era dovuti preoccupare dei possibili effetti del crollo della mafia. MAI. Sino ad oggi ci si era chiesti come infliggerle dei colpi significativi, e non come gestire il “dopo-mafia”. Questa non e’ una cosa che sta succedendo oggi, ma una cosa che si e’ realizzata mediante centinaia di arresti. Che vi piaccia o meno, sono fatti. Ed e’ molto difficile farli quagliare con le dichiarazioni di un pentito il quale riferisce che un altro mafioso gli avrebbe raccontato che un non meglio specificato individuo avrebbe fatto qualcosa di non meglio identificato attraverso il quale il paese sarebbe stato sotto il loro controllo, cosa che non e’ mai avvenuta , visto che la loro organizzazione e’ stata decapitata proprio dal loro presunto alleato.

Indubbiamente, il colpo di stato e’ fallito. La “rivoluzione viola” non ci sara’, e se Soros ha speso dei soldi, ben gli sta .

Adesso, pero’, bisognera’ arrivare alla resa dei conti. E’ chiaro che qualcuno nel paese si e’ messo a lavorare per il “partito del TImes”, e che si sta affidando a quei gruppi di potere finanziario che fomentano le varie “rivoluzioni arancioni”, “rivoluzioni gialle”, “rivoluzioni viola”, con lo scopo di “esportare democrazia”. Ed e’ altrettanto evidente che tale scopo sia una minaccia per la sicurezza dello stato in se’.

MA che cos’era, in realta’, questa “Rivoluzione Viola” cui Di Pietro , insieme a Grillo, si e’ prestato?(2)

La rivoluzione verde„ di Teheran è l’ultimo avatar “delle rivoluzioni colorate, che hanno permesso agli Stati Uniti di imporre governi al loro soldo in molti paesi senza dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan che ha consigliato due governi di fronte a queste crisi, analizza tale metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran. “Le rivoluzioni colorate„ stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi somigliano, ma ne non hanno il sapore. Sono cambiamenti di regime aventi l’aspetto di una rivoluzione, poiché mobilitano vasti segmenti popolari, ma dipendendo dal colpo di Stato non mirano a cambiare le strutture sociali, ma sostituire un’elite a un’altra per condurre una politica economica e estera pro-USA. “La rivoluzione verde„ di Teheran è l’ultimo esempio.

L’origine del concetto

Questo concetto è apparso negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena circa i colpi di Stato fomentati dalla CIA nel mondo, e la grande vetrina delle commissioni parlamentari Church e Rockefeller (1), l’ammiraglio Stansfield Turner fu incaricato dal presidente Carter di ripulire l’agenzia e cessare ogni sostegno “alle dittature casalinghe”. Furiosi, i social democratici statunitensi (SD/USA) lasciarono il partito democratico e raggiunsero Ronald Reagan. Si trattava di brillanti intellettuali trotzkisti (2), spesso legati alla rivista Commentary. Quando Reagan fu eletto, affidò loro il compito di proseguire l’ingerenza US, ma con altri mezzi. Così crearono nel 1982 il National Endowment for Democracy (NED) (3) e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le due strutture sono organicamente legate: amministratori del NED seggono nel consiglio d’amministrazione del USIP e viceversa.

Giuridicamente, la NED è un’associazione senza scopo di lucro, di diritto US, finanziata da una sovvenzione annuale votata dal congresso all’interno del bilancio del Dipartimento di Stato. Per condurre le proprie azioni, le fa cofinanziare dall’US Agency for International Development (USAID), essa stessa collegata al Dipartimento di Stato. In pratica, questa struttura giuridica è soltanto un paravento utilizzato congiuntamente dalla CIA, dal MI6 britannico e dall’ASIS australiano (e occasionalmente dai servizi canadesi e neozelandesi). La NED si presenta come un organo “di promozione della democrazia”. Interviene sia direttamente; sia con i suoi quattro tentacoli: uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato di corrompere i patronati, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di destra; sia ancora tramite fondazioni amiche, come Westminster Foundation for Democracy (Regno Unito), International Center for Human Rights and Democratic Development (Canada), Fondation Jean-Jaurès e Fondation Robert-Schuman (Francia), International Liberal Center (Svezia), Alfred Mozer Foundation (Paesi Bassi), Friedrich Ebert Stiftung, Friedrich Naunmann Stiftung, Hans Seidal Stiftung e Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di avere corrotto così più di 6.000 organizzazioni nel mondo in una trentina di anni. Tutto ciò, naturalmente, essendo camuffato sotto l’aspetto di programmi di formazione o d’assistenza.

La USIP, da parte sua, è un’istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionata annualmente dal Congresso nel bilancio del Dipartimento della Difesa. A differenza della NED, che funge da copertura ai servizi dei tre stati alleati, la USIP è esclusivamente statunitense. Sotto la copertura di ricerca in scienze politiche, può pagare personalità politiche estere. Appena ha potuto disporre di risorse, la USIP ha finanziato una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution (4). Questa

piccola associazione di promozione della non-violenza era inizialmente incaricata di prefigurare una forma di difesa civile per le popolazioni dell’Europa dell’Ovest in caso d’invasione da parte dei paesi del Patto di Varsavia. Essa ha rapidamente preso la sua autonomia ed ha modellizzato condizioni nelle quali un potere statale, di qualunque natura esso sia, può perdere la sua autorità e crollare.

Primi tentativi

Il primo tentativo “di rivoluzione colorata” è fallito nel 1989. Si trattava di capovolgere Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi parenti collaboratori, il segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il mercato cinese agli investitori statunitensi e fare entrare la Cina toccati. nell’orbita USA. I giovani partigiani di Zhao invasero piazza Tienanmen (5). Furono presentati dai mass media occidentali come studenti a-politici che si battevano per la libertà di fronte all’ala tradizionale del partito, mentre si trattava di un dissenso all’interno della corrente di Deng tra nazionalisti e filo-statunitensi. Dopo avere a lungo resistito alle provocazioni, Deng decise di concludere con la forza. La repressione fece tra i 300 e i 1000 morti secondo le fonti. 20 anni più tardi, la versione occidentale di questo colpo di Stato mancato non è cambiata. I mass media occidentali che hanno coperto recentemente quest’anniversario presentandolo come “una sommossa popolare” si sono stupiti del fatto che i pechinesi non abbiano conservato memoria dell’evento. È che una lotta di potere nell’ambito del partito non aveva nulla “di popolare„. Non si sentivano

La prima “rivoluzione colorata” riesce nel 1990. Mentre l’Unione Sovietica era in corso di smembramento, il segretario di Stato James Baker si recò in Bulgaria per partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente finanziato dalla NED (6). Tuttavia, nonostante le pressioni del Regno Unito, i bulgari, spaventati dalle conseguenze sociali del passaggio dall’URSS all’economia di mercato, commisero l’imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea certificarono la regolarità dello scrutinio, l’opposizione pro-USA urlò alla frode elettorale e scese in strada. Installò un accampamento al centro di Sofia ed immerse per sei mesi il paese nel caos, fino a che il Parlamento elesse a presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev. “La democrazia”: vendere il proprio paese agli interessi stranieri all’insaputa della propria popolazione.

Da allora, Washington non ha cessato di organizzare cambiamenti di regime, un po’ ovunque nel mondo, mediante l’agitazione di piazza piuttosto che con giunte militari. Occorre qui circoscrivere i giochi. Al di là del discorso lenitivo “sulla promozione della democrazia”, l’azione di Washington mira all’imposizione di regimi che gli aprono senza condizioni i mercati interni e si allineano alla sua politica estera. Ma, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti “delle rivoluzioni colorate”, non sono mai discussi ed accettati dai dimostranti che mobilitano. E, qualora questo colpo di Stato riesca, i cittadini non ritardano a rivoltarsi contro le nuove politiche che si impongono loro, anche se è troppo tardi per ritornare indietro. D’altra parte, come si può considerare “democratiche” quelle opposizioni che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all’insaputa della loro popolazione?

Nel 2005, l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e porta a Bichkek dei dimostranti del Sud del paese. Fanno cadere il presidente Askar Akaïev. È “la rivoluzione dei tulipani”. L’assemblea nazionale elegge a presidente il filo-USA Kourmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi supporters che saccheggiano la capitale, dichiara di avere cacciato il dittatore e finge di volere creare un governo d’unità nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov, ex sindaco di Bichkek, e lo nomina il ministro dell’interno, quindi primo ministro. Quando la situazione si è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza gara d’appalto e con i logici sotto banco, alcune risorse del paese a società USA ed installa una base militare USA a Manas. Il tenore di vita della popolazione non è mai stato così basso. Felix Kulov propone di sollevare il paese federandolo, come in passato, alla Russia. Non tarda a tornare in prigione.

Un male per un bene?

Si obietta a volte, nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, che se queste “rivoluzioni colorate” portano soltanto una democrazia di facciata, procurano tuttavia benessere alle popolazioni. Ma, l’esperienza mostra che nulla è meno sicuro. I nuovi regimi possono risultare più repressivi dei vecchi. Nel 2003, Washington, Londra e Parigi (7) organizzano “la rivoluzione delle rose” in Georgia (8). Secondo uno schema classico, l’opposizione denuncia frodi elettorali in occasione delle elezioni legislative e scende in strada. I dimostranti forzano il presidente Edouard Shevardnadze a fuggire e prendono il potere. Il suo successore Mikhail Saakachvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe con il vicino russo. L’aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi all’aiuto russo non arriva. L’economia, già compromessa, crolla. Per continuare a soddisfare i suoi accomandanti, Saakachvili deve imporre una dittatura (9). Chiude i mass media e riempie le prigioni, cosa che non impedisce assolutamente alla stampa occidentale di continuare a presentarlo come “democratico”. Condannato alla fuga in avanti, Saakachvili decide di rifarsi una popolarità lanciandosi in un’avventura militare. Con l’aiuto dell’amministrazione Bush e di Israele al quale ha affittato basi aeree, bombarda la popolazione dell’Ossezia meridionale, facendo 1600 morti, di cui la maggior parte ha la doppia nazionalità russa. Mosca risponde. I consulenti statunitensi e Israeliani fuggono (10). La Georgia è devastata.

Quanto basta!

Il meccanismo principale “delle rivoluzioni colorate„ consiste nel mettere a fuoco l’insoddisfazione popolare sull’obiettivo che si vuole abbattere. Si tratta di un fenomeno di psicologia di massa che spazza tutto al suo passaggio ed al quale nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro-espiatorio è accusato di tutti i mali che affliggono il paese almeno da una generazione. Più resiste, più la rabbia della folla cresce. Sia che ceda o schivi, la popolazione ritrova i suoi fantasmi, le spaccature tra i suoi partigiani ed i suoi oppositori riappaiono. Nel 2005, nelle ore che seguono l’assassinio del primo ministro Rafik Hariri, in Libano si diffonde la voce che è stato ucciso “dai Siriani”. L’esercito siriano – che in virtù dell’Accordo di Taëf mantiene l’ordine dalla fine della guerra civile – viene contestato. Il presidente siriano, Bachar el-Assad, è personalmente messo in discussione dalle autorità statunitensi, cosa che è già una prova per l’opinione pubblica. A quelli che fanno osservare che – nonostante momenti tempestosi – Rafik Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un collaboratore essenziale, si risponde che “il regime siriano” è così cattivo in sé che deve uccidere anche i suoi amici. I libanesi auspicano uno sbarco delle GI’s per cacciare i Siriani. Ma, con generale sorpresa, Bachar el-Assad, ritenendo che il suo esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento costa caro, ritira i suoi uomini. Vengono organizzate elezioni legislative che vedono il trionfo della coalizione “anti-siriana”. È “la rivoluzione dei cedri”. Quando la situazione si stabilizza, ciascuno si rende conto che, se i generali siriani hanno in passato saccheggiato il paese, la partenza dell’esercito siriano non cambia nulla economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per difendersi di fronte all’espansionismo del vicino israeliano. Il principale capo “antisiriano”, il generale Michel Aoun, si ravvede e passa all’opposizione. Furiosa, Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aoun si allea allo Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. Era tempo: Israele attacca. In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo “democratico”, cosa che conferma bene che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione del nuovo gruppo è tenuta segreta il più a lungo possibile. È per questo che la designazione del capro-espiatorio è realizzata senza mai evocare un’alternativa politica.

In Serbia, i giovani “rivoluzionari„ filo-USA hanno scelto un logo che appartiene all’immaginario comunista (il pugno teso) per mascherare la loro subordinazione agli Stati Uniti. Hanno preso come slogan “egli è finito!”, federando così gli insoddisfatti contro la personalità di Slobodan Milosevic che hanno ritenuto responsabile dei bombardamenti del paese, tuttavia effettuati dalla NATO. Questo modello è stato duplicato, ad esempio il gruppo Pora! in Ucraina, o Zubr in Bielorussia.

Una non-violenza di facciata

I comunicatori del Dipartimento di Stato vegliano sull’immagine non violenta “delle rivoluzioni colorate”. Davanti a tutte, le teorie di Gene Sharp, fondatore di Albert Einstein Institution. Ma la non-violenza è un metodo di combattimento destinato a convincere il potere a cambiare politica. Affinché una minoranza si impadronisca del potere e lo eserciti, gli occorre sempre, prima o poi, l’uso della violenza. E tutte “le rivoluzioni colorate„ lo hanno fatto.

Nel 2000, nonostante il mandato del presidente Slobodan Milosevic durasse ancora per un anno, egli convocò elezioni anticipate. Lui stesso e il suo principale oppositore, Vojislav Koštunica, si trovarono al ballottaggio. Senza attendere il secondo giro di consultazioni, l’opposizione gridò alla frode e scese nelle strade. Migliaia di dimostranti affluirono verso la capitale, tra i quali minatori di Kolubara. I loro giorni di lavoro erano indirettamente pagati dalla NED, senza che loro fossero a conoscenza di essere remunerati dagli Stati Uniti. Essendo la pressione della manifestazione insufficiente, i minatori attaccarono gli edifici pubblici con i bulldozer che avevano trasportato, da cui il nome “di rivoluzione dei bulldozer”.

Qualora la tensione si perpetui e vengano organizzate contro-manifestazioni, la sola soluzione per Washington è di immergere il paese nel caos. Agenti provocatori sono allora inviati tra i due campi per colpire la folla. Ogni parte può constatare che quelli di fronte hanno colpito mentre avanzavano in modo pacifico. Il confronto si generalizza. Nel 2002, la borghesia di Caracas scende in strada per contestare la politica sociale del presidente Hugo Chavez (11). Con abili montaggi, le televisioni private danno l’impressione di una marea umana. Sono 50.000 secondo gli osservatori, 1 milione secondo la stampa ed il Dipartimento di Stato. Si verifica allora l’incidente del ponte Llaguno. Le televisioni mostrano chiaramente filochavisti, armi alla mano, che sparano sulla folla. In una conferenza stampa, il generale della guardia nazionale ed il vice-ministro della sicurezza interna conferma che “le milizie chaviste” hanno sparato sul popolo facendo 19 morti. Si dimette e chiama al capovolgimento della dittatura. Il presidente non tarda ad essere arrestato dai soldati insorti. Ma il popolo a milioni scende nella capitale e ristabilisce l’ordine costituzionale. Un’indagine giornalistica successiva ricostituirà in dettaglio il massacro del ponte Llaguno. Metterà in evidenza un ingannevole montaggio delle immagini, il cui ordine cronologico è stato falsificato come attestano i quadranti degli orologi dei protagonisti. In realtà, sono i chavisti ad essere stati attaccati e questi, dopo aver ripiegato, tentavano di liberarsi utilizzando armi da fuoco. Gli agenti provocatori erano poliziotti locali formati da un’agenzia USA.

Nel 2006, la NED riorganizza l’opposizione al presidente kenyano Mwai Kibaki. Finanzia la creazione del partito arancione di Raila Odinga. Quest’ultimo riceve il sostegno del senatore Barack Obama, accompagnato da specialisti della destabilizzazione (Mark Lippert, attuale capo di gabinetto del consigliere della sicurezza nazionale, ed il generale Jonathan S. Gration, attuale inviato speciale del presidente US per il Sudan). Partecipando ad una riunione di Odinga, il senatore

dell’Illinois si inventa un vago legame di parentela con il candidato filo-USA. Tuttavia Odinga perde le elezioni legislative del 2007. Sostenuto dal senatore John McCain, in qualità di presidente del IRI (prolungamento repubblicano della NED), contesta la sincerità dello scrutinio e chiama i suoi partigiani a scendere in strada. Nel mentre SMS anonimi sono inviati in massa agli elettori di etnia Luo. “Cari Keniani, Kikuyu ha rubato il futuro dei nostri bambini… noi dobbiamo trattarli nel solo modo che comprendono… la violenza”. Il paese, tuttavia uno dei più stabili dell’Africa, si infiamma improvvisamente. Dopo giorni di sommosse, il presidente Kibaki è costretto ad accettare la mediazione di Madeleine Albright, in qualità di presidente del NDI (il prolungamento democratico della NED). Viene creato un posto di primo ministro con il reintegro di Odinga. Ci si chiede, gli SMS dell’odio, non essendo stati inviati da impianti keniani, quale potenza straniera abbia potuto spedirli.

La mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale

Negli ultimi anni, Washington ha avuto occasione di lanciare “rivoluzioni colorate” con la convinzione che pur fallendo a prendere il potere esse consentissero di manipolare l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali. Nel 2007, numerosi Birmani insorgono contro l’aumento dei prezzi del combustibile domestico. Le manifestazioni degenerano. I monaci buddisti prendono la testa della contestazione. È “la rivoluzione zafferano” (13). In realtà, Washington non è interessata al regime di Rangoon; ciò che le interessa, è di strumentalizzare il popolo birmano per fare pressione sulla Cina che ha interessi strategici in Birmania (condutture e base militare di informazioni elettroniche). Di conseguenza, l’importante è mettere in scena la realtà. Immagini prese da telefoni portatili appaiono su YouTube. Sono anonime, inverificabili e fuori contesto. Precisamente, la loro apparante spontaneità gli dà credibilità. La Casa-Bianca può imporre la sua interpretazione dei video. Più recentemente, nel 2008, manifestazioni studentesche paralizzano la Grecia a seguito dell’omicidio di un giovane ragazzo di 15 anni da parte di un poliziotto. Rapidamente rompitori fanno la loro comparsa. Sono stati reclutati nel vicino Kosovo e trasportati su autobus. I centri delle città saccheggiati. Washington cerca di fare fuggire i capitali verso altri cieli e di riservarsi il monopolio degli investimenti nei terminali gaziferi in costruzione. Una campagna stampa dunque farà passare il governo ansante Karamanlis per quello dei colonnelli. Facebook e Twitter sono utilizzati per mobilitare la diaspora greca. Le manifestazioni si estendono ad Istanbul, Nicosia, Dublino, Londra, Amsterdam, La Haye, Copenaghen, Francoforte, Parigi, Roma, Madrid, Barcellona, ecc.

La rivoluzione verde

L’operazione condotta nel 2009 in Iran si iscrive in questo lungo elenco di pseudo-rivoluzioni. In primo luogo, il congresso vota nel 2007 un finanziamento di 400 milioni di dollari “per cambiare il regime” in Iran. Questo si aggiunge ai bilanci ad hoc del NED, del USAID, della CIA e tutti quanti [NDR in italiano nel testo]. Si ignora come questo denaro è utilizzato, ma tre gruppi principali ne sono destinatari: la famiglia Rafsanjani, la famiglia Pahlevi, e i Moudjahidin del popolo. L’amministrazione Bush prende la decisione di finanziare “una rivoluzione colorata” in Iran dopo avere confermato la decisione dello stato maggiore di non attaccare militarmente questo paese. Questa scelta è convalidata dall’amministrazione Obama. Per difetto, si riapre dunque la cartella “di rivoluzione colorata”, preparata nel 2002 con Israele nell’ambito dello American Enterprise Institute. All’epoca avevo pubblicato un articolo su questo metodo (14). Basta farvi riferimento per identificare i protagonisti attuali: è stato poco modificato. È stata aggiunta una parte riguardante il Libano con la previsione di un sollevamento a Beyrouth in caso di vittoria della coalizione patriottica (Hezbollah, Aoun) alle elezioni legislative, ma essa è stato annullata. Lo scenario prevedeva un sostegno massiccio al candidato scelto dall’ ayatollah Rafsandjani, la contestazione dei risultati dell’elezione presidenziale, degli attentati globali, il capovolgimento del presidente Ahmadinejad e della guida suprema l’ayatollah Khamenei, l’installazione di un governo di transizione diretto da Mousavi, quindi il restauro della monarchia e l’installazione di un governo diretto da Sohrab Sobhani.

Come immaginata nel 2002, l’operazione è stata supervisionata da Morris Amitay e Michael Ledeen. Ha mobilitato in Iran le reti dello Irangate. Qui piccoli cenni storici sono necessari. L’Irangate è una vendita di armi illecita: la Casa-Bianca desiderava rifornire in armi i Contras nicaraguensi (per lottare contro i sandinisti) da un lato e l’Iran dall’altro (per far durare fino all’esaurimento la guerra Iran-Iraq), ma ciò era proibito dal Congresso. Gli Israeliani proposero allora di dare in subappalto le due operazioni allo stesso tempo. Ledeen che ha la doppia nazionalità statunitense/israeliana funge da agente di collegamento a Washington, mentre Mahmoud Rafsandjani (il fratello dell’ayatollah) è il suo corrispondente a Teheran. Il tutto su un fondo di corruzione generalizzata. Quando scoppia lo scandalo negli Stati Uniti, una commissione d’indagine indipendente viene diretta dal senatore Tower ed il generale Brent Scowcroft (il mentore di Robert Gates). Michael Ledeen è un vecchio gitante delle operazioni segrete. Lo si trova a Roma in occasione dell’assassinio di Aldo Moro, lo si trova nell’invenzione della pista bulgara in occasione del tentativo d’assassinio di Giovanni Paolo II, o più recentemente nell’invenzione dell’approvvigionamento di uranio nigeriano da parte di Saddam

Hussein. Lavora oggi allo American Enterprise Institute (15) (al fianco di Richard Perle e Paul Wolfowitz) ed alla Foundation for the Defense of Democracies (16). Morris Amitay è ex direttore dello l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). È oggi vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA) e direttore di un consiglio di gabinetto per grandi ditte d’armamento. Il 27 aprile scorso, Morris e Ledeen organizzavano un seminario sull’Iran allo American Enterprise Institute a proposito delle elezioni iraniane, attorno al senatore Joseph Lieberman. Il 15 maggio scorso, nuovo seminario. La parte pubblica consisteva in una tavola rotonda animata dall’ambasciatore John Bolton a proposito del “grand marchandage”: Mosca accetterebbe di lasciare cadere Teheran in cambio della rinuncia di Washington allo scudo anti-missile in Europa centrale? L’esperto francese Bernard Hourcade partecipava a questi scambi. Simultaneamente, l’istituto lanciava un sito Internet destinato alla stampa nella crisi a venire: IranTracker.org . Il sito include una rubrica sulle elezioni libanesi. In Iran, spettava all’ayatollah Rafsandjani capovolgere il suo vecchio rivale, l’ayatollah Khamenei. Proveniente da una famiglia di agricoltori, Hachemi Rafsandjani ha fatto fortuna nella speculazione immobiliare sotto lo Scià. È diventato il principale grossista di pistacchi del paese ed ha arrotondato la sua fortuna durante l’Irangate. I suoi averi sono valutati in molti miliardi di dollari. Diventato l’uomo più ricco dell’Iran, è stato successivamente presidente del Parlamento, presidente della repubblica ed oggi presidente del Consiglio di discernimento (organo arbitrale tra il Parlamento ed il Consiglio dei custodi della costituzione). Rappresenta gli interessi del bazar, cioè i commercianti di Teheran. Durante la campagna elettorale, Rafsandjani aveva fatto promettere al suo ex-avversario diventato il suo puledro, Mirhossein Mousavi, di privatizzare il settore petrolifero. Senza connessione alcuna con Rafsandjani, Washington ha fatto appello ai Moudjahidines del popolo (17).

Quest’organizzazione protetta dal pentagono è considerata come terrorista dal Dipartimento di Stato e da parte dell’Unione Europea. Ha effettivamente condotto operazioni terribili negli anni 80, fra cui un mega-attentato che costò la vita all’ayatollah Behechti, a quattro ministri, a sei ministri aggiunti ed a un quarto del gruppo parlamentare del partito della repubblica islamica. L’organizzazione è comandata da Massoud Rajavi, che sposa in prime nozze la figlia del presidente Bani Sadr, quindi Myriam la crudele in seconde nozze. La sua sede è installata nella regione parigina e le sue basi militari in Iraq, inizialmente sotto la protezione di Saddam Hussein, quindi oggi sotto quella del dipartimento della difesa. Sono i Moudjahidin che hanno garantito la logistica degli attentati durante la campagna elettorale (18). Spetta a loro di causare incidenti tra i militanti pro e anti-Ahmadinejad, quel che hanno probabilmente fatto. Qualora il caos si fosse rafforzato, la guida suprema avrebbe potuto essere capovolta. Un governo di transizione, diretto da Mirhussein Mousavi avrebbe privatizzato il settore petrolifero ed avrebbe ristabilito la monarchia. Il figlio del vecchio Scià, Reza Cyrus Pahlavi, sarebbe risalito sul trono ed avrebbe designato Sohrab Sobhani come primo ministro. In questa prospettiva, Reza Pahlavi ha pubblicato in febbraio un libro di interviste con il giornalista francese Michel Taubmann. Quest’ultimo è direttore del bureau d’information parisien d’Arte e presiede il Cercle de l’Observatoire, il club dei neo-conservatori francesi. Ci si ricorda che Washington aveva previsto in modo identico il ristabilimento della monarchia in Afganistan. Mohammed Zaher Shah doveva riprendere il suo trono a Kaboul e Hamid Karzai doveva essere suo primo ministro. Purtroppo, a 88 anni, il pretendente era diventato demente. Karzai diventò dunque presidente della repubblica. Come Karzai, Sobhani ha la doppia nazionalità statunitense. Come lui, lavora nel settore petrolifero del Caspio. Dal lato della propaganda, il metodo iniziale era affidato al gabinetto Benador Associates. Ma è evoluto sotto l’influenza dell’assistente del segretario di Stato per l’istruzione e la cultura, Goli Ameri. Questo iraniano-statunitense è un ex collaboratore di John Bolton. Specialista dei nuovi mass media, ha organizzato programmi di mezzi e di formazione ad Internet per gli amici di Rafsandjani. Ha anche sviluppato radio e televisioni in lingua farsi per la propaganda del dipartimento di Stato ed in coordinamento con la BBC britannica.

La destabilizzazione dell’Iran è fallita perché la principale molla “delle rivoluzioni colorate” non è stata correttamente attivata. MirHussein Mousavi non è riuscito a cristallizzare l’insoddisfazione sulla persona di Mahmoud Ahmadinejad. Il popolo iraniano non si è fuorviato, non ha reso il presidente uscente responsabile delle conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi sul paese. Di conseguenza, la contestazione si è limitata alla borghesia delle zone del nord di Teheran. Il potere si è astenuto da opporre le manifestazioni le une contro le altre ed ha lasciato i complottatori scoprirsi. Tuttavia, occorre ammettere che l’intossicazione dei mass media occidentali ha funzionato. L’opinione pubblica straniera ha realmente creduto che due milioni di iraniani fossero scesi in strada, quando la cifra reale è almeno dieci volte inferiore. Il mantenimento sul posto dei corrispondenti della stampa ha facilitato queste esagerazioni dispensandoli di fornire le prove delle loro imputazioni.

E’ abbastanza riconoscibile la mano che ha giudato questa “protesta spontanea”, “nata dalla rete”, grazie al “popolo di internet” (come se su internet ci fossero italiani che non esistono nella realta’) sia nelle sue modalita’ che nel suo svolgimento. E’ evidente come l’organizzazione della “protesta” sia praticamente firmata, tanto e’ stereotipata nella sua modalita’.

Ma specialmente, questa tattica e’ riconoscibile per le modalita’ del suo FALLIMENTO.

Adesso, non bisogna fare prigionieri.

Uriel

(1) Non nego che questo mi riempia di soddisfazione.

(2)Thierry Meyssan (Analyste politique, fondateur du Réseau Voltaire). Dernier ouvrage paru : L’Effroyable imposture 2

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